L’esperienza del Gruppo Abele sul tema dell’immigrazione parte dall’incontro e accoglienza di persone definite “soggetti deboli”, nel dormitorio e nella centro diurno, dove giovani uomini e donne chiedono aiuto per non stare all’addiaccio la notte o per acquisire competenze di giorno: corsi di italiano, informatica, cucina e cucito, ecc. Le persone che si rivolgono all’associazione sono per lo più giovani tossicodipendenti, italiani e migranti, che chiedono un riferimento e un aiuto in un momento particolarmente difficile della loro vita. In passato, su questo ambito, il Gruppo Abele aveva aperto una comunità per offrire anche alle persone migranti con problemi di dipendenza uno spazio per riorientarsi nel nostro paese o per avere un rimpatrio assistito. Poi il progetto “La finestra sulla piazza”, che ci ha fatto incontrare i primi minori non accompagnati, gli stessi che oggi continuiamo a incontrare, e sono giovani migranti di prima e seconda generazione, ancora minori stranieri non o male accompagnati, che cerchiamo di agganciare attraverso lo strumento del gioco (calcio, calcetto, ecc.) nei quartieri a maggiore densità di immigrazione. Non sono mancati in questi anni progetti di incontro con le comunità di migranti, soprattutto cinesi, maricchini e peruviani. Oggi molti di questi progetti, basati sull’alfabetizzazione e sulla progettazione di momenti di festa e di incontro tra culture, continuano, sia a livello urbano che con sperimentazione anche in zone montane, come ad esempio la zona delle cave di pietra a Barge, dove sono coinvolti adulti e bambini della comunità cinese con quella del nostro paese ospitante.
Da molti anni poi il Gruppo Abele segue il tema della tratta degli esseri umani in tutte le sue forme, fenomeni che negli ultimi anni sono ampiamente aumentati con l’arrivo di moltissime persone richiedenti protezione internazionale.
Ed è proprio partendo dalle storie delle persone incontrate in questi progetti che verrei portare un contributo al dibattito su immigrazione e montagna, reduce anche dall’esperienza appena conclusa con il Progetto No tratta, promosso da Cittalia (l’agenzia di formazione dell’Anci) con Sprar (Servizio centrale), Ministero dell’Interno, Dipartimento per le Pari Opportunità, Università di Padova, On the road e Gruppo Abele.
Il primo aspetto che voglio mettere in evidenza è che tra i nuovi flussi migratori, con persone in fuga da guerre, carestie, persecuzioni di ogni tipo, ci sono sempre più vittime di tratta, in particolare per lo sfruttamento sessuale e per quello lavorativo. Anche se non manca lo sfruttamento per accattonaggio e ultimamente anche per l’impiego in attività illecite (spaccio, furti, borseggi, vendita di merci contraffatte, ecc.) tanto che l’Unione Europea in una delle ultime Direttive in materia ha inserito questo fenomeno nelle nuove forme di tratta degli esseri umani.
In secondo luogo va tenuto presente che c’è sia una tratta alla partenza, con contratti prima di uscire dal proprio Paese, suggellati, a seconda della nazionalità e dall’età, con ipoteche sulla casa dei parenti, vendita di beni, riti vudù (tanto che per una giovane nigeriana il debito contratto può arrivare a 70.000 euro); sia una tratta all’arrivo, che fa leva sul disorientamento delle persone, sull’inattività in cui sono costrette, in particolare nei centri di prima accoglienza e identificazione dove gli sfruttatori e le sfruttatrici hanno buon gioco ad incontrare le potenziali vittime e avviarle allo sfruttamento. Questo succede ancora a volte nei progetti Sprar, seppur oggi più preparati, ma soprattutto nei progetti cosiddetti “prefettizi” e in particolar modo se gestiti da realtà imprenditoriali che svolgono principalmente servizi alberghieri e di ristorazione o realtà comunque non adeguatamente preparate in materia.
Terzo elemento è la presenza, in continuo aumento, di minori tra le vittime di tratta. Serve quindi essere capaci, in tutti i progetti che accolgono migranti richiedenti protezione internazionale, di leggere gli indicatori che possono rilevare la presenza di una potenziale vittima di tratta in modo da poterla adeguatamente indirizzare. Va ricordato, a questo proposito, che nel Nord Ovest il primo caso di sfruttamento sui luoghi di lavoro ha riguardato un pastore magrebino sfruttato nei pascoli della Valle d’Aosta. Non solo. Assieme alle vittime di tratta bisogna imparare anche ad individuare le potenziali figure di sfruttatori.
Rispetto agli inserimenti nelle zone di montagna (discorso che può valere comunque anche per altri piccoli centri in zone rurali) credo che il successo o meno di un inserimento dipenda da una serie di fattori quali: cosa offre in termini di lavoro, vita sociale e trasporti la zona geografica; dall’età della persona accolta e se è con famiglia o meno; dal “progetto” di immigrazione personale o, se c’è, dalla motivazione della sua partenza; dalla modalità con cui le persone sono accompagnate nel loro inserimento, perché se non ci sono operatori preparati e attentialcuni problemi come ad esempio l’isolamento e la mancanza di un progetto evolutivo di inserimento possono condurre al fallimento dell’intero progetto; dal ruolo dell’ente locale; dal comportamento della scuola che può certamente favorire l’integrazione anche attraverso la valorizzazione degli aspetti positivi che l’immigrazione, pur con tutte le fatiche che porta con sé, offre alle persone che la vivono e alle realtà che la accolgono; dal coinvolgimento delle realtà associative del territorio, a cominciare dalle Parrocchie, ai vigili del fuoco, ai gruppi Ana, le Pro loco, ecc.; dal comportamento dei media.
Che fare, dunque?
Credo che bisognerebbe partire innanzitutto dall’ascolto dei migranti, dai loro desideri e dalle loro speranze e da un bilancio delle loro competenze. Tutto ciò per destinarli, per quanto possibile, in luoghi che siano maggiormente rispondenti alle loro esigenze e dove i loro sogni, anche se dovessero essere fortemente ridimensionati, possano continuare ad esistere. Questa attenzione e questa scelta avrebbe una ricaduta positiva anche sulla comunità locale che accoglie in quanto favorirebbe maggiormente l’incontro tra capacità lavorativa e offerta del mercato del lavoro.
Altro elemento su cui si sta lavorando in alcune realtà locali, tra cui diversi parchi naturali, è il coinvolgimento delle persone accolte in lavori utili per la collettività, soprattutto nella prima fase di arrivo, periodo in cui le persone non hanno ancora tutti i documenti necessari per poter lavorare e dove l’inattività porterebbe gli ospiti ad essere esposti a richieste di esercitare attività anche illegali.
Altro aspetto da tener presente, quello della ripartizione delle persone sul territorio, che eviterebbe di vedere grandi agglomerati di persone favorendo così un inserimento più armonioso nei diversi territori. Per arrivare a questo credo che bisognerebbe, purtroppo, eliminare il criterio di volontarietà lasciata alle pubbliche amministrazioni di aderire o meno ai progetti. Oviamente, come contropartita, evitando poi di lasciarle sole a gestire pratiche burocratiche difficili e la complessità dell’accoglienza dei migranti; pensiamo alle molte persone che hanno subìto traumi o alla necessità di avere a disposizione figure professionali specifiche (mediatori culturali preparati; legali specializzati sul tema, ecc). La gestione di questi progetti, che sarebbe meglio chiamare processi, ha infatti funzionato unicamente laddove c’è stata una gestione multidisciplinare, coordinata, e che ha assicurato un supporto, ai diversi attori in gioco. Un ulteriore elemento su cui bisognerebbe lavorare – e penso soprattutto al ruolo che potrebbero avere in tal senso le Unioni dei Comuni Montanei – è quello di trovare soluzioni progettuali adeguate, ad esempio, per il recupero di vecchi stabili con l’aiuto persone migranti, alcune delle quali ha ottime capacità e potrebbe riqualificare paesi in decadenza e abbandono, in cambio, ad esempio, di agevolazioni sull’affitto. Rispetto all’accoglienza bisognerebbe invece formare le diverse realtà coinvolte per riconoscere chi è potenziale vittima di tratta, e indirizzarlo alle apposite accoglienze del Sistema Tratta sparse su tutto il territorio nazionale, anche attraverso il numero verde dedicato: 800290290. Nel contempo bisognerebbe anche saper individuare i possibili sfruttatori presenti nei progetti di accoglienze. La presenza dei migranti nei paesi di montagna o comunque in zone rurali, può essere molto positiva per garantire la presenza di servizi a rischio di chiusura. Prime fra tutte le scuole, dove avviene il primo indispensabile passo per favorire l’interazione tra culture diverse, ma anche i presidi sanitari, agli ospedali, agli uffici postali, le banche, i negozi, i distributori di carburante, ecc. Anche il turismo e l’ambito silvo pastorale, ne trarrebbero beneficio, il presidio di zone fragili il cui abbandono avrebbe ricadute anche nelle zone di pianura.
Molte altre questioni sarebbero da mettere sul tappeto. A cominciare dal necessario rilancio delle esperienze positive di convivenza e di ripopolamento delle zone montane, alla necessità di rivedere il linguaggio, sia per ciò che attiene i migranti (invasori) che per i temi legati alla montagna (assassina).
Chiudo con una proposta che mi sta molto a cuore e su cui, anni fa, ho lavorato con un gruppo di amici: realizzare un grande Museo delle migrazioni italiane e internazionali, che sappia mettere in relazione il partire, larrivare e il ritornare, con tutte le sfumature e ricadute che questo comporta. La sede del museo, da realizzarsi in un luogo simbolico, dovrebbe essere collegata a una rete museale su tutto il territorio italiano, con una ricerca da parte delle comunità locali sul proprio passato migratorio collegato al loro presente, una realtà viva e generatrice di cultura e interazione.
Mirta Da Pra Pocchiesa, giornalista responsabile del Progetto Vittime del Gruppo