La situazione socio-economica della montagna europea, o meglio dell’arco alpino, potrebbe rientrare perfettamente in quella categoria filosofica che Serge Latouche definisce “decrescita triste”. Anzi, a voler essere precisi, potrebbe meglio essere definita come “decrescita infelice”, in quanto quella “triste”, come scrive Latouche, presuppone un’opzione volontaria di decrescita in senso pauperista, quasi mortificatorio. Che non è esattamente quello che il filosofo francese – e noi con lui – si auspica quando parla di decrescita. Quella “infelice” invece è la condizione di chi subisce una decrescita senza poterla né accompagnare né contrastare. Ed è indubbio che il mondo della montagna in questi ultimi cinquant’anni ha vissuto una costante, vistosa riduzione delle attività agro-pastorali, del numero di abitanti, delle condizioni di vita. A fronte di un’aggressione via via sempre più invasiva invece di chi alla montagna guarda come possibilità di business: impianti sciistici, dighe, seconde case, captazioni di sorgenti, linee ferroviarie, ecc. Per dirla in modo più chiaro la parte viva e vitale della montagna ha continuato ad impoverirsi, quella speculativa, che trasferisce a valle utili e che a valle attinge in gran parte la forza lavoro utilizzata, no. E questa situazione non può che alimentare un’infelicità crescente in chi tenacemente continua ad abitare e ricavare il proprio sostentamento in montagna.
E’ evidente che lavorare in montagna, tranne alcune trascurabili eccezioni, significa lavorare nell’agroalimentare: allevare, coltivare, cucinare, trasformare e tutto in misura sostenibile, perché diversamente non è dato. Non c’è spazio per praticare l’agroindustria e la monocultura e tanto meno l’industria manifatturiera: in questi luoghi si può operare solo adottando la multifunzionalità delle aziende, la sostenibilità dei processi e solo in piccola scala. E sappiamo quanto sia difficile garantire reddito sufficiente a chi adotta pratiche di questo tipo. Ma in montagna ci si può avvalere di un vantaggio preliminare: i prodotti che godono dell’origine alpina, vengono percepiti come migliori, come più salubri, come più artigianali degli altri. Il che ovviamente non è sempre vero, anzi. Proprio questo appeal forte che alimenta una domanda assai maggiore dell’offerta, favorisce ad esempio operazioni di travaso truffaldino di prodotti dalla valle alla montagna. E in certi casi favorisce anche l’adozione di pratiche e materie prime che non rispecchiano più le tradizioni locali. Insomma i prodotti alpini si sono lentamente trasformati in feticci: mano a mano che la produzione complessiva calava, la seduzione che questi feticci operavano sul consumatore aumentava. E il punto di rottura si è consumato ormai da parecchi anni.
Se tutto questo è vero dobbiamo pensare a come rapportarci a queste tematiche. Dobbiamo chiudere gli occhi e ammettere che, purché qualcuno continui a vivere e lavorare in montagna, possano esistere anche pratiche non cristalline? O invece non è il momento di fare un’opera profonda di formazione per gli operatori e di educazione per i consumatori per fare sì che il vero prodotto di montagna venga finalmente venduto al prezzo che vale? Che ad esempio un formaggio di alpeggio non debba e non possa costare quanto uno stracchino di caseificio padano? Che i frutti rossi di altura non sono come quelli di serra in pianura e debbono valere di più? Che un pane fatto in montagna con grani locali e magari cotto nel forno a legno – ammesso che ne esistano ancora – merita lo stesso apprezzamento di cui gode un panettone artigianale famoso? E’ chiedere troppo? Sono soltanto pie illusioni? Eppure solo così potremo sperare che qualche giovane vinca l’infelicità e torni a vivere e lavorare in altura. E assolutamente si devono evitare tentazioni quantitative: questi sono prodotti condannati ad essere relativamente scarsi, non debbono andare sugli scaffali della grande distribuzione. Debbono alimentare le cucine della ristorazione locale e favorire un turismo di qualità, che non salga in montagna solo per cercare le piste da sci e i feticci falsi e bugiardi, ma che attinga alle risorse alpine con cautela, con attenzione, con disponibilità a pagare il giusto.
Piero Sardo, Presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus