Resistenza casearia è la campagna di Slow Food per tutelare formaggi, razze animali, ma anche pascoli, pastori e saperi antichi appartenenti a un mondo che rischia di scomparire.
La Fondazione, da tempo, si impegna ogni giorno accanto a casari, pastori, trasformatori, produttori che ancora “resistono” e che scelgono di non abbandonare i loro territori di origine: protagonisti che hanno resistito «alla massificazione e alle regole del mercato», casi che attraversano l’intero arco alpino, dalla bassa all’alta valle, dalla pianura e fino alle vette più alte. Si incontrano vacche, pecore e capre che insieme ai loro pastori e casari hanno scritto la storia dei Presìdi Slow Food.
In Valsesia la Fondazione tutela una produzione tipica: il Macàgn, prodotto con latte vaccino intero e crudo. Emanuela Ceruti, insieme al marito Livio Garbaccio, è una dei pochi produttori che continuano a salire in alpeggio. Figlia di un falegname di Borgosesia, si è spostata a Pavia per studiare economia e ha costruito la sua carriera tra Milano e Novara. A cambiare direzione alla sua vita è stato proprio Livio: «È stato un incontro d’altri tempi – ricorda Emanuela –. Quando mi ha fatto visitare la sua malga e assaggiare il formaggio fatto con le sue mani, mi sono resa conto che al di fuori della routine cittadina a cui ero abituata c’era un mondo diverso, libero, dove la famiglia, i piccoli ideali, l’umiltà e la genuinità delle persone sono rimaste quelle di un tempo. Così ci siamo sposati e ho iniziato a lavorare con loro». Emanuela si occupa dei rapporti con i vari enti di controllo, aiuta in casa e accudisce vacche e capre. Il formaggio lo fa Livio che si occupa anche della mungitura. «Mungere e fare il formaggio sono gesti e saperi che si tramandano di generazione in generazione – confessa Emanuela –. Per chi, come me, non nasce in questo mondo non è facile, e ci vogliono tempo e attenzione. Eppure sono sempre più convinta della scelta che ho fatto».
La storia di chi è rimasto è affidata invece alle parole di Pier Claudio Michelin Salomon, che di mestiere ha sempre fatto il pastore e il produttore di formaggio: «Soprattutto di Saras dal Fen, la ricotta stagionata della Val Pellice avvolta nella festuca che è stata uno dei primi Presìdi Slow Food», chiarisce Pier Claudio. «Sono ancora abbastanza numerosi gli alpeggi attivi in questa valle – continua –. Invece, a produrre Saras nella maniera tradizionale, a latte crudo, in alpeggio, nella stagione estiva, facendolo stagionare e poi avvolgendolo nel fieno siamo rimasti in 16». Riscoprire questa ricotta ha permesso a tanti di mantenere attivi alpeggi che diversamente sarebbero stati abbandonati. «Il Saras è comunque un investimento rischioso – spiega, con amarezza, Pier Claudio –. Il vero Saras, quello più buono, quello che dà le sue migliori qualità, deve stagionare almeno 21 giorni. Ma così si allungano i tempi di produzione e il rischio. Il suo prezzo è, evidentemente, più alto di quello del Saras fresco, prodotto magari a valle». A complicare le cose si aggiunga la carenza di manodopera giovane, interessata ad investire in un mestiere che è soprattutto una scelta di vita: secondo Pier Claudio, che è da solo in malga e resta in alpeggio fino alla metà di settembre, «questo è un lavoro che piace poco ai giovani, perché bisogna seguire i ritmi della natura e degli animali e riposarsi è difficile».
Che si resti ereditando terre e mestiere del padre, o che si torni dopo aver abbandonato la vita cittadina nel fiore degli anni alla ricerca di un mondo più conciliante, la ricetta è chiara e la spiegano bene le parole di Emanuela: «Bisogna lasciare tutto e venire in montagna solo se si ha ben chiaro quello che si cerca, bisogna venire qui convinti. Oppure restare qui, come fanno in molti, lavorare con entusiasmo e restare qui convinti».
Daria Rabbia
*Voci e dichiarati citati sono tratti da www.slowfood.com/resistenzacasearia che in questi anni ha raccolto le testimonianze di casari, pastori, trasformatori e produttori “resistenti”.