Un primato tutto torinese, che affondava le radici in un altro momento storico, di 5 anni precedente, quando in città fu inaugurata la prima palestra di arrampicata al chiuso nel Palavela. Protagonista di entrambe le iniziative, l’alpinista instancabile Andrea Mellano che, da Accademico del Cai, attirò su di sé scetticismo e critiche – anche dagli ambienti che all’epoca sembravano più aperti alle novità – nella convinzione che l’approccio verso l’arrampicata dovesse diventare sempre più sportivo. Al suo fianco un altro personaggio con entusiasmo da vendere: Emanuele Cassarà, giornalista di Tutto Sport, che era riuscito a sdoganare la montagna e le sue pratiche tra le pagine di un quotidiano incentrato sul calcio. Per lui Sportroccia fu l’occasione concreta per celebrare il matrimonio tra alpinismo e sport in un evento dal risalto internazionale.
Tra i giovani di cui si circondarono Mellano e Cassarà per l’organizzazione dell’evento spiccava un ragazzo alto e magro, appassionato com’è ovvio di arrampicata, che dava già l’impressione di avere le idee chiare sul proprio futuro. Stiamo parlando di Marco Scolaris, torinese, la cui vicenda professionale ha seguito di pari passo l’evoluzione dell’arrampicata sportiva: dalle prime pionieristiche gare alla nascita di una Federazione sportiva internazionale in odore di Olimpiadi di cui è diventato presidente.
«Per Sportroccia ’85 mi occupai dei rapporti con gli atleti stranieri – attacca Scolaris –. Nelle settimane precedenti la gara aleggiava una certa apprensione a causa del famoso Manifesto dei 19, un documento anti competizioni che alcuni climber francesi avevano firmato. Ma quando poi ricevemmo le adesioni di Catherine Destivelle e Patrick Edlinger, capimmo che era fatta»!
In realtà quello di Bardonecchia fu poco più di un fuoco di paglia perché, dopo la prima edizione, nell’86 Sportroccia fu disputato anche ad Arco di Trento dove, nell’87, nacque il Rock Master che trasferì le competizioni definitivamente sulle strutture artificiali.
«Probabilmente è un po’ nell’indole di noi piemontesi: abbiamo delle trovate geniali che non riusciamo a trattenere e ci lasciamo soffiare da altri. Sicuramente Arco aveva alle spalle una Provincia autonoma con tutti i vantaggi economici che ciò comporta. Affiancarono a un territorio baciato dalle acque del lago di Garda e da una disponibilità immensa di roccia, la visione estremamente lungimirante di puntare su ciò che oggi definiremmo “outdoor”, cioè windsurf, climbing e mountain bike».
Rispetto ad Arco di Trento, il territorio di Bardonecchia non era in grado di offrire opportunità particolarmente allettanti per gli adepti del free climbing e le prospettive future erano ancora focalizzate sullo sviluppo dello sci e degli sport invernali. Ma la perdita del cosiddetto grande evento non ha comunque mortificato il movimento arrampicatorio che appare quanto mai vitale e interessante, per numero di atleti amatori e per qualità degli atleti di punta.
«Quando diventai presidente dell’Ifsc (Federazione Internazionale di Arrampicata Sportiva) l’allora sindaco Chiamparino ci aiutò a trasferire la sede della Federazione a Torino. In seguito la sua giunta costruì il Pala Braccini che rimane una delle strutture d’arrampicata al chiuso più innovative nel nostro paese. E, in quanto presidente della Sasp (Società Arrampicata Sportiva Palavela), la più grande d’Italia con oltre 2000 iscritti, posso dire che gli arrampicatori a Torino non mancano di certo. Con questo, però, mancano gli eventi sportivi di alto livello. Da un lato perché non è facile reperire i fondi per una programmazione a medio e lungo termine. Dall’altro perché non ci sono le strutture, visto che il palazzetto torinese non ha sostanzialmente posto per gli spettatori».
Simone Bobbio