A commento del numero scorso della rivista, prevalentemente dedicato al ruolo dei rifugisti, il vicepresidente del Cai Torino Osvaldo Marengo ha osservato che: «Senza il Cai non ci sarebbero i rifugi e tantomeno i rifugisti […] e non si parla neppure della figura dei rifugisti volontari del Cai, e delle sottosezioni i cui soci si alternano nella conduzione […]. Va anche ricordato che molti “rifugisti” non avevano questo alone di leggenda e poesia, ma viceversa erano molto interessati al risultato economico, manifestato dall’acquisto di parecchi immobili sul territorio, un po’ come succede ora con i “rifugisti” privati”». Osservazione inoppugnabile, ma nel numero si era inteso rendere omaggio a una figura particolare, cui si lega un’attività a metà tra il mestiere e un aspetto che oserei definire “vocazionale”. E si erano volute evidenziare figure emblematiche, ieri come oggi, con tanto di nomi e cognomi. Poi invece c’è il lato anonimo, legato all’impegno volontario di gruppi di persone che, soprattutto in quei rifugi piccoli, lontani da itinerari battuti e quindi a bassa redditività, si organizza nella gestione spartendosi i compiti in base alle competenze o alle attitudini: cuochi, inservienti, rassettatori di camere, idraulici, muratori, carpentieri, elettricisti ecc. In questa attività collettiva si ritrova lo spirito di servizio e di gruppo che lega gli appartenenti alla sezione Cai proprietaria della struttura. Tutto ciò permette così al rifugio di assolvere a quel fondamentale ruolo di presidio territoriale di pubblica utilità. E, in tale impegno collettivo, si ritrova anche molto dello spirito d’intrapresa che portò, soprattutto nei tempi passati, alla costruzione stessa dei rifugi, avvenuta per lo più proprio grazie all’apporto volontario di competenze diverse, in vista di un obiettivo comune. Un contributo che si ripete oggi – talvolta, lasciatemelo dire, con tanta generosità quanta approssimazione – nei casi di manutenzione edilizia straordinaria di tali strutture.
Ovviamente questa storia, che ha risvolti non meno “eroici” dell’altra – anzi, per certi versi anche maggiori, in quanto dietro non vi sono mai finalità di business, come giustamente non manca di sottolineare, con una punta di polemica, Marengo -, è, ancor più della prima, tutta da ricostruire e da scrivere, in quanto ha lasciato ancor minori tracce se non nelle memorie di diretti interessati o dei frequentatori. Parallelamente ai casi legati a certe sezioni Cai, negli ultimi anni va segnalata un’altra vicenda simile di volontariato collettivo: si tratta di 12 strutture costruite – o ricostruite – e gestite, sull’intero arco alpino italiano, da giovani a servizio dell’Operazione Mato Grosso. Infatti i proventi dell’attività, svolta gratuitamente, sono destinati al sostegno delle missioni in Perù (dove si trovano sei rifugi costruiti secondo la medesima logica), Ecuador, Brasile e Bolivia (www.rifugi-omg.org).
Luca Gibello