Roberta Paltrinieri e Stefano Spillare, “L’Italia del biologico. Un fenomeno sociale dal campo alla città”, Edizioni Ambiente 2015, pp. 200, 17 euro
“Siamo quello che mangiamo” e sempre di più ne siamo consapevoli: cosa diventa quindi “buono da mangiare”, nel significato dato da Lévi-Strauss, nell’epoca moderna? E se ciò che diventa buono da mangiare lo è perché “buono da pensare”, quali sono i cambiamenti di paradigma culturale sottesi al cibo nell’epoca contemporanea?
“L’italia del biologico. Un fenomeno sociale, dal campo alla città”, è una ricerca condotta da Roberta Paltrinieri e Stefano Spillare all’interno del Ces.co.com (Centro studi avanzati sul consumo e la comunicazione) racchiusa in un volume edito da EdizioniAmbiente, che ci conduce alla scoperta della presa di coscienza italiana del fenomeno del biologico, che ha comportato un vero e proprio cambio di paradigma sociale e politico nell’approccio del mondo occidentale alle tematiche della produzione, distribuzione e consumo di cibo.
Con un interessante excursus storico-filosofico, il lettore comprende le ragione della sua nascita, da ricercare nel passato non così prossimo, come invece si è portati a credere, bensì in parte della filosofia di inizio ‘900, tesa tra spinte naturalistiche e resistenza alla tecnologizzazione delle società. Molti pensatori – si veda Rudolf Steiner, inventore del metodo biodinamico – nonché produttori agricoli e cittadini comuni ingaggiarono una battaglia contro il paradosso per cui l’attività più vicina alla natura, come da sempre è stata la pratica agricola, potesse essere andata contronatura, vedendone già la portata insostenibile del processo. L’inizio del Novecento comportò ancora solo i germi di quello che, a partire dal secondo dopoguerra, si sarebbe sviluppato come una vera e propria pandemia: l’agricoltura basata sulla monocoltura. Il futuro ormai passato avrebbe poi riservato la nascita degli Ogm, organismi geneticamente modificati, segnando il definitivo controllo dell’uomo sulla natura.
Tuttavia, quelle idee di inizio secolo contro un progresso unilineare e una crescita illimitata si mantennero cambiando veste nei giorni nostri e dando avvio al movimento per il biologico come lo conosciamo noi oggi, da fenomeno cultural-pratico a fenomeno sociale e politico, inestricabilmente legato alla necessità di una nuova ecologia.
Ma il biologico e l’agricoltura biologica portano con sé delle contraddizioni inestricabili: nati da un paradosso, sono essi stessi paradossali nel momento in cui enti certificatori, mercati sempre più ampi e grande distribuzione sembrano far da padroni anche in questo campo.
Gli autori, che con indagini quantitative riportano con precisione la crescita esponenziale ed il fatturato, non solo italiano, di questo comparto, condividono la visione dell’agricoltura biologica quale motore di una maggiore sostenibilità e salubrità – in altre parole, essa è l’esempio più calzante di quella green economy di cui oggi sentiamo sempre più spesso parlare – dichiarandone comunque i rischi ed i possibili effetti di una sua “convenzionalizzazione”, ossia di una concentrazione, burocratizzazione e meccanizzazione del biologico sempre più in mano a colossi del mercato.
Per fortuna, l’agricoltura biologica è anche uno dei massimi esempi di decoupling relativo, un modello produttivo dove non vi è contrasto tra l’andamento economico e quello ambientale. Per tale ragione essa è al centro dell’interesse del consumatore critico che risponde ad una società globale del rischio con comportamenti controtendenza al mercato mainstream.
Chi sceglie il biologico non lo fa quindi solo per un proprio tornaconto egocentrico bensì le scelte consumistiche assumono anche una forma altruistica e collettiva, verso un autointeresse lungimirante.
Siamo quindi entrati, con l’era della tarda modernità, nell’era del post-biologico, dove le certificazioni (che in alcuni casi hanno tradito l’originaria vocazione del biologico) non sono più fattori di fiducia, mentre si fa sempre più sentita la ricerca di un contatto diretto con il produttore, verso un equilibrio maggiore delle 3 E (ecologia, equità ed economia) e dove l’agricoltura, ora ai margini dei processi economici, può giocare un ruolo centrale, purché l’uomo si affidi al grande dono datogli dalla natura, quello della biodiversità.
L’azienda agricola, particolarmente in Italia, è investita di un alto valore sociale ed ambientale per la sua valenza multifunzionale poiché alla produzione di cibi di qualità si affiancano attività che vanno dalla valorizzazione paesaggistica alla promozione turistica e culturale dei territori.
La ricerca prende quindi a modello esempi di economia civile in Italia, sempre con un rimando al contesto internazionale, dove all’homo economicus si sostituisce l’homo civicus, dove l’engagment passa attraverso un agricivismo quale forma di cittadinanza attiva contro l’egemonia del mercato convenzionale ed in cui i territori divengono protagonisti per forme di welfare e di protezione ambientale: dalla campagna – con le fattorie didattiche, gli agriturismi, il turismo di comunità – alla città, con i mercati contadini, gli orti urbani e i GAS (gruppi di acquisto solidale), senza dimenticare il valore dell’agricoltura sociale e dell’educazione alla legalità sulle terre confiscate alla mafia.
Un libro quindi da leggere, dove il biologico è la chiave per decifrare i comportamenti post-moderni che vedono la tematica della sostenibilità al centro degli interessi di singoli e di gruppi, per comprendere i nostri consumi e come essi siano inseriti in un quadro più ampio che vede l’Italia, con i suoi territori e le sue specificità, poter essere al primo posto di un rilancio equo e solidale del mercato, verso economie altre.
Maria Anna Bertolino