Sarebbe bello quanto interessante tracciare una storia sociale dei rifugi, ancora del tutto mancante. Tranne che in rari casi, si sa infatti poco, in maniera frammentaria, in base a cronache marginali o memorie orali e locali.


Il primo nucleo del rifugio Vièl dal Pan nel 1952

Tale storia potrebbe avere due risvolti, a seconda che la si guardi dalla parte dei rifugisti o dei frequentatori. Sul primo fronte scopriremmo che, in principio, l’istituzione della figura del rifugista avviene (in Svizzera verso inizio Novecento) non tanto per offrire un servizio di conforto a pagamento, quanto per preservare il ricovero e le sue sparute suppellettili dalle devastazioni e razzie di bracconieri, ladri e balordi – sebbene comunemente già allora si credesse che l’andar per montagne ispirasse sempre un’elevazione dello spirito… Infatti, agli inizi, i rifugisti li si chiama “guardiani” o “custodi”. Certo, esistono precedenti in cui l’obiettivo del business è già ben chiaro. Proprio come nel caso del primo rifugio nella concezione alpinistica del termine, ai Grands Mulets del Monte Bianco dove, a oltre 3000 metri, fin dal 1866 (data del primo ampliamento della costruzione eretta nel 1853), le guide di Chamonix, proprietarie del ricovero, decidono d’insediare il collega Sylvain Couttet, che vi resisterà sei anni. Le cuoche, però, scappavano a gambe levate in genere dopo una stagione, per le difficoltà dell’accomodation. Stando alle cronache di Joseph Vallot, solo nel 1878 si troverà «una donna assai valorosa (…) Marie Tairraz, il cui buon umore e le attenzioni non venivano mai meno malgrado le fatiche eccessive di un servizio che esige che si stia in piedi giorno e notte durante la settimana dopo essere stata molti giorni in assoluta solitudine, a una temperatura polare in mezzo a tempeste spaventose». Mentre, negli anni trenta del Novecento, Annetta Nardella governerà da sola il ben più confortevole rifugio Migliorero (Valle Stura) ma standovi relegata per tre interi e lunghi inverni. D’altronde, spesso sono proprio le donne a fare la differenza (e a dimostrare un’accoglienza inarrivabile, magari in piccoli gesti visibili nell’arredo) rispetto ai burberi maschi, i quali però ai tempi eroici talvolta scrutavano dalla finestra l’arrivo degli alpinisti e andavano loro incontro sollevandoli dal fardello dello zaino per l’ultimo tratto di percorso.


Bruno Detassis al Brentei nel 1975 – foto di Gianni Zotta

Spesso, le storie sono di famiglie e generazioni che si tramandano la proprietà (come la famiglia Dantone al Vièl dal Pan in Marmolada, la cui vicenda inizia nel 1952 con l’erezione d’una semplice baracca-chiosco per vendere bevande e panini ai viandanti lungo il sentiero, o come la famiglia Alimonta, committente, costruttrice e conduttrice del rifugio omonimo in Brenta dal 1968) o la sola gestione: alla Nürnbergerhütte la famiglia Siller è insediata da ben 101 anni e 4 generazioni; i Rovejaz lo furono per 70 anni alla capanna Quintino Sella sul Monte Rosa; i Salvaterra hanno superato il mezzo secolo al XII Apostoli in Brenta (con Maria Salvaterra, la “Nonna del Brenta” che per oltre 40 anni ha percorso la cosiddetta “Scala santa” per salire in rifugio). O, per rimanere in Brenta, basti pensare alla mitica figura di Bruno Detassis, anima per quasi 60 anni del Maria e Alberto ai Brentei, la cui fama di rifugio era dovuta precipuamente al suo carisma di guida e “Custode del Brenta”, la cui eredità non è invece stata coltivata con altrettanto ardore dal figlio Claudio. O ancora, per ricordare figure mitiche del passato, Tita Piaz il “diavolo delle Dolomiti”, che prima gestisce il rifugio Vaiolét e poi, vedendosi negato dal fascismo il rinnovo del contratto a fine anni venti, rimette mano al progetto di costruirsi un rifugio suo riattando la baracca che già aveva eretta nei pressi e dedicando il ricovero a Paul Preuss (e ancora oggi il rifugio è condotto dalla famiglia Piaz).


La quarta e quinta generazione della famiglia Siller alla Nurnbergerhutte

D’altronde – e gli alpinisti lo sanno bene – è il rifugista a imprimere il carattere del rifugio, almeno quanto le mura stesse. E se negli anni d’oro di Bonatti in lotta con le cattedrali del Monte Bianco il Couvercle era gestito da un tal Ulysse che aveva addomesticato una marmotta la quale, a fine cena, veniva issata dai commensali per divorare con irruenza i fiori di erica che il suo “padrone” le aveva preparato al centro del tavolo, ancora oggi, per citare un altro guardiano di lungo corso come Egidio Bonapace, quando un alpinista entra in un rifugio, il primo riferimento che deve e vuole avere è di trovarsi davanti IL rifugista.
Luca Gibello