L’idea è molto semplice: abbiamo pensato di disturbare i massimi esperti in materia di turismo montano del nostro paese per fare loro la seguente domanda: «Premesso che l’industria dello sci, nonostante l’ingente contributo pubblico che pesa sulle tasche dei contribuenti, è sempre meno sostenibile dal punto di vista economico (nonché ambientale), ipotizziamo di sottrarre a questo comparto un 10% dei finanziamenti annui per investirli in forme di turismo alternativo e di più ampio respiro stagionale. Lei da dove partirebbe? Che priorità individuerebbe? Che strategia di investimenti proporrebbe?»
Abbiamo chiesto una risposta secca, diretta, senza preamboli né cornici. Ebbene, il primo dato interessante è che ci hanno risposto tutti. E hanno inviato dei contributi davvero interessanti e appassionati. Segno che il tema è caldo, e che tutti loro stanno elaborando delle riflessioni che sono stati felici di condividere con noi e i nostri lettori. Proposte né polemiche né contro. Semplicemente realistiche e, semmai, a “sostegno” di un importante settore turistico, quello dell’industria dello sci, destinato in futuro a ridimensionarsi, con la conseguente “razionalizzazione” dei posti di lavoro. Che bisognerà in futuro cercare altrove.
La parola agli specialisti:

Aldo Bonomi: se si disponesse di un certo ammontare di risorse “sottratte” all’industria sciistica da utilizzare per incentivare altre forme di fruizione turistica della montagna opterei per investimenti che guardino al medio-lungo periodo volte a stimolare l’imprenditoria giovanile in settori complementari a quello turistico: agricoltura, allevamento, silvicoltura, artigianato, commercio e manifattura leggera. In altre parole, poiché immagino che la deindustrializzazione del turismo provocherebbe la perdita secca di numerosi posti di lavoro, un po’ come se in una città chiudesse una grande fabbrica, occorrerebbe stimolare la diversificazione produttiva a partire dalle risorse ambientali (acqua, legno, ecc.). Ciò significa valorizzare saperi sociali che tengano conto delle vocazioni “pre-industriali”, da un lato, e dell’orizzonte green (compatibilità ambientale, digitalizzazione, innovazione tecnologica) dall’altro.

Aldo Bonomi, sociologo, nel 1984 ha fondato l’istituto di ricerca Consorzio A.A.S.TER. e negli anni ne ha accompagnato la crescita in qualità di direttore. Mantenendo al centro del suo interesse le dinamiche sociali, antropologiche ed economiche dello sviluppo territoriale, è stato consulente della Presidenza del CNEL.

Enrico Borghi: la promozione dell’industria del turismo in una chiave di sviluppo sostenibile rappresenta uno dei settori sui quali puntare per favorire la crescita socioeconomica. Il turismo è la cornice nella quale trovano piena collocazione le filiere dei prodotti tradizionali, delle tradizioni popolari, dell’ambiente e delle risorse naturali. In una parola, dell’identità. L’identità montanara, che era un’identità fortemente ancorata al territorio, agli usi e costumi, alla lentezza tipica di una società fissa e statica, può diventare, se sapientemente coniugata con gli strumenti della modernità e dell’innovazione tecnologica, la chiave di successo di una promozione turistica del territorio efficiente e in grado di portare valore aggiunto e di creare nuove economie sul territorio. Il turismo sostenibile non può e non deve essere “consumo” del territorio ma un settore strettamente legato alla vocazione locale, all’identità del luogo, alla sua storia. È da qui che, avendo le risorse necessarie, partirei. Dal coinvolgimento della comunità locale in attività che creino sul territorio e attraverso le risorse del territorio stesso, nuove economie. In questo senso la formazione è strategica per avviare i giovani e per istruirli su opportunità e strumenti necessari a far sì che un’idea di impresa diventi realtà concreta.

Enrico Borghi è deputato e Presidente dell’Uncem, l’Unione Nazionale Comuni, Comunità, Enti Montani. 
Dal marzo 2011 è vicepresidente nazionale dell’Anci, con delega alle politiche per la montagna.

Giorgio Daidola: non esistono regole universali, ogni destinazione turistica ha delle caratteristiche peculiari che devono essere attentamente studiate prima di formulare proposte alternative di turismo sostenibile. Quindi ritengo sbagliato lanciarsi in proposte di “riposizionamento” basate su percorsi con le ciaspole, piste per slittino, rifugi e malghe aperte in inverno, fattorie didattiche, sviluppo di ecomusei, ecc… Tutte iniziative valide ma che devono adattarsi al territorio e ai suoi abitanti.
La sostenibilità economica deve essere provata per qualsivoglia investimento, quindi anche per quelli che hanno come obiettivo forme di turismo “alternative”. Di conseguenza occorre essere in grado di elaborare dei veri business plan, dai quali emergano con chiarezza previsioni di flussi di cassa positivi dalla gestione economica (esclusa quella finanziaria) dei progetti di investimento.
I soldi andrebbero investiti nelle stazioni invernali di piccole dimensioni disposte a radicali cambiamenti. Le grandi stazioni considerano le iniziative alternative come marginali, come cosmetici utili a nascondere una mancanza di sensibilità ecologica.
Almeno una parte dei fondi disponibili andrebbe investita in serie iniziative di formazione di manager in possesso di:
– strumenti adatti ad una corretta gestione economico finanziaria dei progetti;
– profonda conoscenza del territorio, degli sport invernali outdoor ed in particolare dello sci e della sua storia, che rappresenterà sempre il fulcro di qualsiasi serio progetto di turismo invernale.

Giorgio Daidola, docente di Economia aziendale e di Gestione delle imprese turistiche presso l’Università di Trento, è giornalista, maestro di sci emerito, regista e attore in film di sci e di montagna.

Cesare Lasen: il primo intervento praticabile, da valutare come priorità, consiste nel censimento delle potenzialità naturalistiche e ambientali dei comprensori sciistici. Si possono prevedere, per i siti ritenuti idonei e dotati di sufficiente attrattività, percorsi atti a promuovere il turismo geologico e naturalistico, attraverso la pubblicazione di brochure e, soprattutto, studiando apposite “app” ad essi dedicate. In tal modo si potrebbero mantenere attivi gli impianti di collegamento per facilitare l’accesso in quota nel periodo estivo.
La strategia degli investimenti sarebbe molto semplificata, limitandosi a una prima fase di studio, alla successiva pubblicazione divulgativa e alla necessaria promozione per far conoscere le nuove opportunità (itinerari). Disponendo di risorse adeguate e aggiuntive, infine, in alcuni casi assai impattanti e in presenza di aree degradate, si potranno proporre mirati interventi di riqualificazione estetica e funzionale.

Cesare Lasen: botanico, Comitato Scientifico Fondazione Dolomiti Unesco.

Andrea Macchiavelli: premesso che l’attività sciistica, dove ci sono le condizioni per poterla praticare con una certa continuità e con una buona offerta di servizi, resta ancora – ancorché in misura più ridotta che nel passato –la motivazione turistica prevalente per la montagna invernale, non vi è dubbio che la diversificazione delle motivazioni e delle attività praticate anche in inverno offra nuove opportunità soprattutto alle località turistiche “minori” e a quelle collocate a quote medio basse. Tuttavia non credo che si possa, a priori e con criteri universalmente validi, definire su quale attività concentrare le risorse. Il dato davvero interessante è che il turista tende ad essere attratto da una varietà sempre maggiore di opportunità e quindi a valorizzare potenzialmente risorse prima ignorate: le ciaspole, lo sci alpinismo (anche in forma soft), lo snowboard, lo sci di fondo, le passeggiate (e comincia a fare capolino la bici sulla neve.) sono tutti esempi outdoor, ma a questi si possono aggiungere, anche in montagna, l’interesse per la cultura, la gastronomia, il benessere. Il vero problema allora diventa quello di valorizzare le risorse che il contesto specifico offre con maggiore abbondanza e qualità in relazione ad un segmento di mercato più facilmente raggiungibile; si apre in sostanza una prospettiva di specializzazione o caratterizzazione della località che offre alla destinazione turistica le condizioni per trovare un buon livello di competitività, pur in presenza di concorrenti dotati di una maggiore offerta di servizi. Non è più tempo che le località turistiche invernali vendano tutte lo stesso prodotto, come hanno fatto fino ad ora, inseguendo univocamente l’ampliamento delle aree sciabili come unico fattore competitivo. È evidente però che deve trattarsi di un’offerta reale e di alta qualità, e ciò impone evidentemente l’orientamento delle risorse e lo sviluppo di professionalità adeguate.

Andrea Macchiavelli, docente di Economia del Turismo all’Università di Bergamo, è direttore del CeSTIT (Centro Studi per il Turismo e l’Interpretazione del Territorio) presso la stessa Università. Si occupa prevalentemente di turismo culturale e di turismo montano.

Ugo Morelli: mi pare che il circuito ambiente-paesaggio-natura-qualità della vita sia quello più rilevante e rispondente a uno spirito del tempo in evidente espansione. Si tratta di riscrivere la mitografia della montagna turistica. Allo stesso tempo è necessario ri-considerare il processo di trasformazione antropologica che il turismo ha concorso a generare nei territori alpini. Una collusione evidente tra certe quote di domanda turistica e l’offerta, ha portato l’industria dello sci ad assumere le caratteristiche attuali, sempre più esasperate. Fino alla maturità, alla saturazione e al declino, non solo per ragioni climatiche. Ne sono rimaste ferite non solo la montagna ma anche il tessuto sociale e gli orientamenti di valore. Una nuova coevoluzione richiede un cambiamento culturale importante, sia a livello di strategie che di organizzazione.
La priorità strategica pare individuabile nella cultura dei residenti. Sia nel senso di un aumento della capacitazione e della qualità della vita in montagna, sia nel senso di uno sviluppo di competenze innovative per nuove forme di offerte. Insisto su questo punto perché mi pare che il principale vincolo sia cognitivo. L’industria dello sci sembra associabile a una forma arcaica di economia di raccoglitori, con basso know-how e consegna passiva alla natura. Si tratta di arricchire di conoscenza le comunità di montagna, prima di tutto per la loro qualità della vita e in secondo luogo come humus per nuove forme di capacità di iniziativa, coerenti col circuito indicato prima.
I principali investimenti dovrebbero essere rivolti all’individuazione di forme appropriate di ospitalità. L’ospitalità, infatti, ha subito una crisi da standardizzazione e si è conformata, in molti luoghi di montagna, a forme metropolitane. Insieme alla stereotipia delle strutture, ciò ha dato vita a una perdita delle distinzioni specifiche dell’offerta montana. Un turismo “dolce e leggero”, capace di rappresentare la varietà e il pluralismo delle culture alpine, avvalendosi si professionalità elevate, può essere alla base del possibile riposizionamento del turismo montano, in grado di dialogare con le tendenze nuove della domanda.

Ugo Morelli è saggista, psicologo, studioso di scienze cognitive e docente di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni presso l’Università degli Studi di Bergamo. È presidente del comitato scientifico della Scuola per il governo del territorio e del paesaggio della Provincia Autonoma di Trento.

Franco Riva: l’industria dello sci mette in conto la concentrazione enfatica (dell’abitato, delle strutture, delle persone, delle attività), l’approccio tecnico-trasformativo dei luoghi, i tempi rapidi, la montagna come pretesto, la ripetizione autoreferenziale, l’ingrosso alimentare. Tutto il turismo alpino ne risente per ressa, mordi e fuggi, tramonto del salire. Con il 10% dei finanziamenti si può fare il contrario. Dislocare e pluralizzare anziché concentrare. Far percepire anziché aggredire. Distendere e rallentare anziché accelerare. L’ambiente come motivo, non pretesto. Ripartire va dunque sotto il segno di altro da sé. La logica degli investimenti privilegia un dialogo stretto e operativo tra la vita attiva e costante degli insediamenti, un’economia (anche turistica) d’inventiva, più autonoma, diversificata, radicata e diffusa, la varietà di possibilità e di percorsi in ambiente montano, la cultura locale sotto ogni aspetto. Priorità simbolica e strategica: le fonti alimentari, acqua compresa, sul territorio.

Franco Riva è professore di Etica sociale e di Filosofia del dialogo presso l’Università Cattolica di Milano. Ha pubblicato, tra gli altri, “Filosofia del Viaggio” (Castelvecchi, Roma 2013).

Giovanni Viganò: se si guarda la storia (che forse può essere chiamata anche cronaca) del turismo nelle destinazioni alpine negli ultimo 50-60 anni si evidenziano chiaramente due dati: la maggiore importanza economica della stagione invernale, rispetto a quella estiva e quindi al resto dell’intero anno; il ruolo dello sci alpino nella diffusione e crescita dell’immagine delle diverse località. Il che ha significato una maggiore redditività dell’attività turistica.
Negli ultimi 20 anni (circa) il ruolo trainante dello sci alpino per il turismo di molte località è andato progressivamente scemando, sia per cambiamenti nei comportamenti della domanda turistica, sia per fattori climatici. Questo ha portato ad alcune conseguenze rilevanti: da un punto di vista economico la sensibile riduzione dell’attività delle fabbriche degli sci; la progressiva perdita di status symbol dello sci da discesa a favore di altre modalità di fruizione della neve; l’obsolescenza dell’offerta classica invernale delle località alpine, considerato che al massimo il 50% di chi fa la “settimana” bianca scia. La scelta della destinazione è allora determinata dall’offerta di servizi.
Questo ha portato a un diffuso stato di sofferenza economico/finanziaria delle società proprietarie degli impianti, soprattutto per quanto concerne quelli di arroccamento, nonostante le iniezioni di soldi pubblici, solo in parte giustificabile. Si tratta di un grosso problema anche per le banche creditrici perché in caso di fallimento si trovano sul gobbo qualcosa che non può che essere “rottamato” e con in più le notevoli spese di ripristino ambientale.
Di qui la necessità di un passaggio ad altre tipologie di offerta, in modo graduale ma con un percorso costante, che deve essere incentivato – anche finanziariamente – dal pubblico con la richiesta che i progetti siano chiaramente sostenibili sia ambientalmente sia economicamente.
Risposte univoche alle domande poste non sono possibili perché la strategia evolutiva è strettamente locale, dipendendo dalle connotazioni della destinazione turistica, dal posizionamento nel proprio ciclo di vita turistica, dal back ground manageriale e professionale esistente in loco, dalla dotazione di risorse di interesse turistico, attuale e/o potenziale.
Questa difficoltà viene ulteriormente aggravata dalla assoluta necessità, in termini di mercato, di arrivare a costruire una offerta che abbia fondamentalmente due caratteristiche: la differenziazione da altre proposte simili (USP – Unique Selling Proposition); la capacità di permettere al turista/ visitatore di vivere un’esperienza autentica e positiva. È assolutamente controproducente che le “piccole” destinazioni turistiche vogliano adottare il modello di quelle “grandi”. In linea strategica questo implica la capacità di individuare un proprio specifico target di domanda, evitando approcci generalistici.
Volendo comunque dare una personale opzione, valuterei la possibilità di interventi mirati in tre settori:
– la diversificazione della tipologia delle strutture ricettive, puntando sul recupero e la valorizzazione delle abitazioni caratteristiche della località, da mettere sul mercato ma con precise indicazioni di standard e di norme di operatività;
– la predisposizione di mirati progetti di valorizzazione delle valenze culturali della zona, nella loro accezione più vasta;
– il progressivo potenziamento della rete dei servizi di interesse turistico, ma fruibili anche dai residenti.
Per quanto concerne le priorità il mio pressante invito è rivolto a voler considerare “prioritari” gli interventi che dipendono in buona parte dal proprio impegno e che sono fattibili nel breve periodo. Puntare prioritariamente su cose che dipendono da altri, o che richiedono tempi lunghi per la loro eventuale realizzazione, è un chiaro sintomo di deresponsabilizzazione della comunità locale.
Per muoversi in questa direzione è necessario avviare una netta strategia di coinvolgimento di tutte le diverse componenti della comunità locale. Il primo investimento è nelle azioni di partecipazione e nella crescita della diffusione della cultura turistica nella comunità locale, scuole comprese.

Giovanni Viganò è docente di Strategia di destinazione turistica al MET dell’Università Bocconi di Milano.