Gli stranieri preferiscono le Alpi. L’incidenza della popolazione straniera su quella totale appare superiore, nelle Alpi italiane, rispetto al valore medio nazionale: al 1° gennaio 2013 essa era pari al 78,6 contro il 73,5 per mille, mentre solo in 31 comuni alpini non risultava a tale data risiedere neppure un cittadino straniero. Saldi migratori positivi con l’estero si sono rilevati nello scorso decennio nella gran parte dell’area alpina, laddove, con riferimento alla cittadinanza, si osservano concentrazioni di alcune nazionalità in particolari porzioni di territorio, spesso in relazione a determinate attività produttive, di servizio o di trasformazione, in cui gli immigrati trovano occupazione, all’interno di economie che si fondano innanzitutto sul lavoro straniero.
Fonte: QUINTA RELAZIONE SULLO STATO DELLE ALPI DEL GRUPPO DI ESPERTI SUI CAMBIAMENTI DEMOGRAFICI: STATO DELL’ARTE E PRIMI RISULTATI, presentazione ppt a cura di Saverio Gazzelloni, Mauro Albani, Giorgia Capacci e Antonella Guarneri (ISTAT), Belluno, 6/5/2014 – reperibile qui: http://www.alpconv.org/en/organization/groups/WGDemography/WSRSA5Belluno/Documents/Belluno_Albani_Capacci_Guarneri_5maggio2014.pdf
Soggetti portatori di culture, progetti di vita, valori e pratiche che risultano frequentemente agli antipodi di quell’etichetta di staticità residuale, che viene spesso applicata alla montagna, gli immigrati (non solo stranieri, naturalmente, ma anche, e in modo più consistente, italiani) sono probabilmente il principale fattore di innovazione presente oggi nell’arco alpino, con il portato di potenzialità e di rischio che ciò comporta per territori fragili, da lungo tempo in crisi e oggi interessati da ambiziose macro-strategie europee di rilancio.
Come è noto, è stata la modernizzazione industriale, urbanocentrica e fondata sulla spinta al mutamento permanente, a produrre quell’immaginario alpino, ad essa opposto, che associa appunto la montagna ad un’idea di staticità, di conservazione e di ruralità coessenziale; rappresentazione questa che appare oggi tanto infondata, quanto fortemente radicata a livello di stereotipo diffuso. Le terre alte infatti, a lungo ambito di innovazioni economiche e socio-culturali, legate in primis ai fenomeni migratori (si pensi solo al ruolo di innovatori che hanno rivestito i Walser, con la loro migrazione a raggiera, intorno al Monte Rosa), diventano dunque con la modernità il luogo di una marginalità di confine, lo spazio vitale, ristretto e fossilizzato, di culture che la società di pianura vuole “primitive” e, come tali, refrattarie per natura al mutamento. In una sorta di “profezia che si auto-avvera”, le identità e le pratiche dei montanari finiranno, soprattutto nel corso del secondo Novecento, con l’aderire a questo modello fortemente reificante, riproducendo nei fatti lo stereotipo residuale che era stato loro imposto.
Eppure, dopo decenni di fortissima crisi, in cui la capacità di resilienza dei popoli alpini è sembrata venire meno, schiacciata tra l’emorragia da spopolamento e la colonizzazione (simbolica oltre che socio-economica) operata dai popoli di pianura, oggi sappiamo, da studi e ricerche in divenire, che le Alpi sono (di nuovo e ancora) in trasformazione. Il mutamento è in atto, e sicuramente uno dei suoi aspetti più rilevanti è proprio quello demografico: la popolazione è tornata a crescere in molte aree (i dati per l’Italia indicano innanzitutto gli assi di Val d’Aosta e Val d’Adige, i comuni periurbani e più prossimi alla pianura, i principali centri sciistici, ma anche alcune “aree interne”), cambiando gli equilibri al ribasso che lo spopolamento e lo “scivolamento a valle” avevano creato. Il tasso medio annuo di incremento della popolazione alpina tra il 2003 e il 2013 è stato pari infatti a +0,49%: sebbene non si tratti di un valore elevato, esso rappresenta comunque un indicatore rilevante rispetto alle dinamiche in corso, la cui caratteristica è quella di manifestarsi tuttavia a “macchia di leopardo” sul territorio; a livello disaggregato, infatti, la situazione è molto variegata ed emergono aree in cui lo spopolamento rappresenta tuttora un grave problema, laddove il 42,1% dei comuni dell’arco alpino italiano presentano tassi di crescita della popolazione nulli o negativi. Dove presente, l’incremento registrato non è comunque di tipo endogeno – la maggior parte dei comuni alpini mostra un tasso di crescita naturale stabile o negativo – quanto piuttosto di tipo esogeno, ovvero dovuto a quel fenomeno migratorio che riguarda quella categoria che è stata chiamata dei “nuovi montanari”.
All’interno di questa ampia e variegata popolazione di nuovi abitanti alpini, quale ruolo stanno avendo, o potranno dunque avere, nei processi di trasformazione in corso, coloro i quali provengono da ambiti etno-culturali molto distanti, geograficamente ed antropologicamente, dalle terre alte italiane? Si tratta di potenziali innovatori (come ci insegna l’analisi sociologica di G. Simmel rispetto alla condizione ambivalente dello straniero) o assisteremo a un loro inserimento mimetico e adattivo nel tessuto socio-territoriale che li ospita?
Da una recentissima ricerca (2014), supportata da Dislivelli e condotta da G. Dematteis, F. Corrado e A. Di Gioia, si evince come tra i “nuovi montanari” siano numerose le provenienze direttamente dall’estero (Romania, Albania, Marocco, tra i primi), le quali risultano più consistenti nei comuni montani più urbanizzati, in quelli più turistici o con particolari specializzazioni produttive (ad es. settore estrattivo, edilizia, artigianato industriale) e nelle fasce periurbane; tra i fattori di attrazione per gli stranieri, si rilevano innanzitutto la disponibilità di alloggi a prezzi contenuti, il minor costo della vita, la possibilità di fuggire il caos delle metropoli (spesso si tratta di persone che provengono in origine da contesti rurali e che ricercano ambienti simili per far crescere i propri figli, come ci ha mostrato un interessante studio di alcuni anni fa, condotto da M. Dematteis sulle biografie degli stranieri in alcune comunità alpine).
Se la ricerca più sopra citata rileva un livello di inclusione sociale di questi soggetti nel complesso abbastanza buono, non vi è stato tuttavia spazio in quella sede per un approfondimento sulle relazioni tra autoctoni e immigrati, sulle loro modalità e sui contenuti che esse veicolano, nonché sul tipo di azioni e di reazioni che tale fenomeno migratorio va producendo nelle comunità di montagna, ovvero sul loro impatto sociale. Sono in atto processi, come direbbe A. Salsa, di “appaesamento” degli stranieri? Si possono individuare forme di re-invenzione del territorio, frutto della negoziazione tra vecchi e nuovi abitanti? Ci sono spazi, occasioni, percorsi di incontro e di ibridazione tra le culture in gioco, che possano dare luogo a fenomeni di innovazione sociale (ovvero, come ci insegna F. Moulaert, di innovazione nei processi di territorializzazione, nella definizione dei rapporti socio-economici locali, nelle modalità di community building e nella gestione della governance)? Tracce di identità emergenti, non più tradizionali ma comunque “montane”? “Montane” in quanto, seppur nuove, coerenti in fondo con un insieme di protocolli (in senso antropologico) e di modi di vita che caratterizzano, come schema di lettura e di rapporto generale con l’ambiente, la relazione uomo-montagna?
Come ci ricorda P. Viazzo, nelle Alpi la migrazione è fortemente legata alla questione dell’identità culturale, che rappresenta un nodo particolarmente delicato: in che senso un mutamento demografico, specialmente se legato (anche) all’immigrazione straniera, si traduce allora in un mutamento culturale? Con quali effetti in termini di continuità/discontinuità culturale, di trasmissione dei saperi locali, di cambiamento/validazione dei modelli sedimentati di selezione e di utilizzo delle risorse territoriali?
Da queste domande nasce dunque il progetto di ricerca, di matrice etnografica e qualitativa, su cui sono attualmente al lavoro, e che mira a colmare una lacuna conoscitiva abbastanza evidente: il rapporto tra immigrazione straniera e innovazione sociale nelle Alpi appare infatti un tema di rilievo e ancora tutto da esplorare, perlomeno dal punto di vista sociologico.
Se la bio-diversità è un patrimonio alpino da tutelare, si può vedere nella socio-diversità il suo logico complemento?
Andrea Membretti
interessanti considerazioni, andrea. penserei anche ai rischi, non legati all’immigrazione straniera (che anzi sono un antidoto), ma alla forte spinta dei vecchi residenti ad adottare spesso abitudini e comportamenti che imitano, male, quelli urbani. dal cibo (le pizzerie di montagna…), al tempo libero (bar…), al consumo vistoso (casa, auto…).
fattori che facilitano la perdita di socio-diversità.
ciao
filippo.barbera@unito.it