Con il latte delle “bionde”, Mariagrazia realizza gustosi formaggini e ha recentemente avviato la produzione di una linea di cosmetici: creme per il viso e le mani, dalle proprietà nutritive ed emollienti. «La capra bionda dell’Adamello produce poco latte – dice Mariagrazia – e, di conseguenza, se dovessi basarmi sulla sola produzione del latte dovrei tenere almeno un centinaio di capi. Se io tenessi, ad esempio, la camosciata delle Alpi avrei più latte, ma allora, se tutti ragionassimo in soli termini produttivi, la bionda dell’Adamello e altre specie rustiche rischierebbero l’estinzione. Con le mie cinquanta capre non posso vivere di soli formaggi: ecco quindi l’idea dei cosmetici e delle attività estive rivolte ai bambini». D’estate, infatti, all’Alpe Valsorda si svolgono giornate didattiche in cui i più piccoli arrivano in malga dopo aver attraversato il bosco a piedi, apprendono a conoscere le capre, a stare a contatto con gli animali e la natura. Imparano a stare in un luogo non organizzato e strutturato secondo i consueti canoni degli spazi urbanizzati, e i riscontri sono molto positivi. La domenica che chiude le attività estive i bimbi salgono in malga con i genitori e fanno scoprire loro le varie attività che hanno appreso: è un’occasione in cui i soliti ruoli gerarchici vengono superati, perché sono i piccoli a insegnare ai grandi, e i grandi per un pomeriggio provano a vedere il mondo con gli occhi dei piccoli.
È solo in malga che Mariagrazia produce i formaggi, perché nei mesi immediatamente successivi alla gestazione preferisce lasciare il latte ai neonati capretti. La tipica giornata estiva si svolge tra la mungitura del mattino e della sera, il pascolo assieme alle capre, la produzione di stracchini e caprini, che, data l’esigua produzione, vengono soltanto venduti direttamente ai clienti che si recano in malga per l’acquisto. Per Mariagrazia il rapporto coi clienti non è puramente commerciale, ma di stima e fiducia: «A me piace far capire loro cosa stanno acquistando: vedono cosa mangiano le capre, come vivono, vedono il benessere dei miei animali, assaggiano il prodotto, vengono a conoscenza di tutta la filiera. Alla fine diventiamo amici. Credo che questo sia il valore aggiunto dei miei formaggini».
Dopo la stagione in malga, a fine ottobre si torna a Livemmo, in un fienile preso in affitto in località Reve, ben esposto al sole, dove fino alla prima decade del Novecento si coltivavano specie rustiche di orzo e frumento. Durante il periodo della neve e della stabulazione, alle capre viene somministrato esclusivamente fieno locale. Nell’ultimo mese di gestazione, verso dicembre, le capre vengono aiutate anche con del mais e dell’erba medica. Verso gennaio o febbraio, è tempo dei parti dei capretti, la parte più impegnativa di questo lavoro, ma anche la più emozionante. Poi, però, arriva la fase più critica dal punto di vista emotivo: la selezione per rispettare lo standard di razza e quindi la scelta di quelli che andranno al macello. «È un lavoro che richiede sempre un continuo studio», dice Mariagrazia. «Si è sempre messi alla prova con le capre, ed è forse è per quello che tante persone non le amano, perché richiedono continue attenzioni».
“Com’è stato, nel corso degli anni, il rapporto con le persone locali, per te che vieni dalla città?”, le chiedo, sapendo di toccare un tasto un po’ dolente, ma centrale nella vita di chi sceglie di andare a vivere e lavorare in montagna. Un aspetto da non sottovalutare, spesso foriero di qualche incomprensione, come ci insegna il film Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, che tanti lettori di Dislivelli conosceranno. «Mi ritrovo molto in quella vicenda», ammette Mariagrazia, e racconta: «Ci sono persone di grande generosità, altre che ti compatiscono perché non capiscono la tua scelta. Si chiedono perché tu abbia lasciato il benessere e le comodità della città per venire a stare qui; lo trovano strano e un po’ sospetto. Quando mi ero trasferita dicevano che non avrei passato l’inverno, quando ho preso le capre che non sarei durata sei mesi, ma il fatto è che ad oggi sono dieci anni che sono qui e faccio questo lavoro. Loro hanno abbandonato il lavoro con la terra preferendo, anche a ragione, il lavoro in fabbrica, che garantisce tutele, uno stipendio sicuro, il fine settimana libero, le ferie: tutto ciò che un contadino e un piccolo allevatore, come me e i loro antenati, non ha e non hanno avuto. Nella loro infanzia hanno conosciuto la povertà, mentre io sono nata nell’agiatezza: questo, forse, fa la differenza e genera qualche incomprensione. A volte mi pare di riscontrare un po’ di invidia e ostilità, e fatico a comprendere il perché. Ma credo che ciò sia da attribuire al fatto che forse alcuni di loro, in fondo, avrebbero voluto continuare a lavorare a contatto con la terra, gli animali e all’aria aperta, ma il sistema e la società dagli anni Sessanta a oggi li ha portati a scegliere la fabbrica. Il fatto che qualcun altro che viene da fuori, arrivi qui, a casa loro, a fare ciò che i loro antenati facevano e che loro hanno abbandonato non è probabilmente di facile accettazione e pone delle domande laddove, come nel mio caso, l’allevamento viene svolto con specie rustiche e meno produttive, su piccola scala e badando soprattutto al benessere animale, rinunciando ad ampi margini di reddito». E aggiunge: «Con gli allevatori locali spesso non ho avuto un rapporto facile e sono stata costretta ad abbandonare alcune collaborazioni per modi diversi di concepire il rapporto coi clienti e gestire il rapporto tra tempo libero e lavorativo. Per la maggior parte di loro devi lavorare, finire la giornata sfinita e dormire al massimo cinque ore. A me è successo di esser mandata via perché non aderivo ai loro stili, sia lavorativi che comportamentali. Dall’oggi al domani mi sono ritrovata senza una stalla, con a seguito cinquanta capre e i miei cavalli». Il gap culturale tra nuovi e locali influenza anche la comunicazione: «Qui la gente non si parla, qui devi capire dei segnali che appartengono al loro linguaggio che però non è il mio. Io mi sono trovata il cane morto avvelenato per aver avuto dei problemi con uno di loro. Sono dei segnali, un linguaggio che non ho capito provando solo molto dolore. Ho perso una cagnolina da lavoro davvero preziosa: un grosso danno affettivo e morale che non ho ancora superato e un danno pratico perché al momento non ho la possibilità di prendermi un altro cane già addestrato. E, quest’estate, il lavoro del cane pastore l’abbiamo fatto io e il mio compagno. Queste cose mi fanno allontanare da loro, mi fanno ritirare in me stessa. Ma io sono forte, non cedo perché so di essere nel giusto, e, anzi, ho sempre molta determinazione a continuare». È indubbio – mi vien da pensare – che, dopo gli entusiasmi degli inizi, siano necessari forza di carattere e tenacia per chi sceglie di lasciare la città per la montagna, tanto amore per il proprio lavoro e per questo ambiente naturale. Me lo conferma Mariagrazia con le sue parole conclusive: «In questi anni ho acquisito tantissimo in termini personali. Non c’è più domenica, non c’è più vacanza, ti ci devi dedicare tutto l’anno. Ma dagli animali e dalla natura ho imparato tantissime cose, non solo pratiche, anche di pensiero: dal loro comportamento, anche dalla loro crudeltà, dalla loro gerarchia, che funziona alla perfezione. Ci sono alcune persone che vengono dalla città e si improvvisano piccoli allevatori, magari mantenendo il lavoro d’origine per avere un reddito certo. Ma ciò non va bene, gli animali ne soffrono. Poi bisogna documentarsi, continuare a studiare».
Ci sarà, in montagna, il ritorno al lavoro contadino?, mi chiedo. Secondo Mariagrazia sì. E anch’io lo credo, e in un certo senso spero che la crisi del capitalismo ultra-liberista probabilmente porti le persone più sagge e avvedute a tornare alla terra. L’importante è che ciò venga fatto con passione, amore e rispetto. E, questa, è forse la scommessa più difficile.
Michela Capra
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Azienda Agricola Cornablacca di Mariagrazia Arrighini
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