Nella primavera del 2009 abbiamo realizzato alcune interviste a diverse tipologie di lavoratori per una mostra ospitata presso il Centro di Documentazione di Sambuco (Cn) intitolata Trabai. Un’indagine sul lavoro in valle Stura. Lo scopo della ricerca era tentare di afferrare i sentimenti che gravitano intorno a un tema così centrale in un’epoca dominata dall’immagine della crisi. Un dato che emerge costantemente è la sacralità del lavoro: cambiano i tempi, le modalità produttive, esigenze e obiettivi personali, eppure persiste una dedizione quasi dogmatica al lavoro, eredità di un passato solo apparentemente remoto.
Alcuni studiosi, come Adriana Destro e George R. Saunders, a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta concentrarono le loro indagini su aspetti sociali e culturali della Valle Stura e delle vallate circostanti, descrivendo ciò che pareva loro essere il crepuscolo di modelli familiari piuttosto rigidi, il ritratto di un mondo che si sentiva prossimo alla scomparsa. Sembrava allora che i valori dei vecchi fossero giunti a un capolinea, soccombenti sotto i colpi della modernità.
In realtà oggi alcuni schemi culturali sembrano resistere ben al di là delle previsioni, nonostante importanti fattori di cambiamento abbiano contribuito a modificare, con fortune alterne, il modello dominante: il passaggio da un’emigrazione rivolta alla Francia o alle Americhe a una diretta verso i fondovalle e le città della Pianura padana; la diffusione di lavori stipendiati, spesso attraverso aziende statali; l’occupazione sempre maggiore, soprattutto in anni recenti, di fasce consistenti della popolazione nel settore terziario.
I diversi casi elencati hanno in comune un allontanamento (fisico, ma non solo) dalla terra, la risorsa principe che ha dato forma a tutto l’ambiente rurale e che assume oggi un valore sempre più ideale. Non a caso da più parti – nei messaggi pubblicitari, nelle riviste di costume, nelle parole di politici di diversi schieramenti – si invoca oggi un “ritorno alla terra” (un esempio un po’ naif ma alquanto significativo in questo articolo de La Stampa). Da destra e da sinistra molti commentatori plaudono così il ritorno alle cose semplici, tangibili, vere, la fuga dalle sofisticherie del modello urbano. Sulla scorta della delusione provata nei confronti della città (vista come l’epicentro della crisi finanziaria), si leva da più pulpiti la speranza – o l’illusione – che la campagna possa costituire un “nuovo” orizzonte per il futuro.
Le zone rurali rischiano, però, di diventare lo sfondo per slogan e proclami, che spesso alimentano un rifiuto per tutto ciò che viene etichettato come moderno (e quindi portatore di crisi), in nome di un buon senso popolare dilagante.
A prima vista si potrebbe pensare che, nel momento in cui molti paiono aver individuato il “futuro nella terra”, le zone rurali e montane attraversino un periodo particolarmente prospero e carico di entusiasmo. In realtà la situazione che emerge dalle parole di molte delle persone che abbiamo intervistato in Valle Stura si presenta ben più problematica. Sono pochi coloro che avvertono in modo diretto gli effetti della crisi economica, ma si insinua una crisi più sotterranea, che si manifesta, ad esempio, nel rimpianto per forme di socialità perdute.
Insomma, la situazione è molto meno semplice rispetto a quella che viene talvolta dipinta: si ha l’impressione che le aree periferiche (delle quali indubbiamente la montagna fa parte) vengano oggi investite di eccessive aspettative e della pesante responsabilità di farsi carico di problemi di scala troppo vasta. Del resto, non si può pensare che territori considerati per decenni (a torto o a ragione) marginali e lontani dai centri decisionali diventino improvvisamente capaci di delineare un orizzonte valido per tutta la società. Il problema si ripresenta tutte le volte in cui si stabiliscono delle opposizioni troppo nette tra centro e periferia, città e campagna, pianura e montagna: dividere la realtà in comparti stagni non porta a una comprensione più semplice della realtà montana, ma a fraintendimenti, aspettative disilluse e nuove inquietudini per il futuro.
Sara Rubeis e Erich Giordano