Andar per monti da turista, lo sappiamo, è un’abitudine piuttosto recente. Da noi sono stati gli inglesi, fondatori del primo Club Alpino di inizio ‘800, a insegnarci che in montagna si poteva andare anche senza portare le bestie al pascolo o cacciare selvaggina, ma per il puro piacere di farlo. Successivamente il Club Alpino (questa volta il nostro) ha posto le basi per trasformare l’hobby di pochi borghesi benestanti in una passione collettiva. E i dati parlano chiaro: in meno di mezzo secolo dalla sua fondazione il Club delle terre alte italiane aumenta il numero dei suoi soci in modo esponenziale. E di conseguenza nascono anche numerose strutture ricettive. E l’andare in montagna attraverso le sue forme più disparate (sci, alpinismo, ma sopratutto escursionismo) diventa un fenomeno numericamente rilevante, con tutto ciò che significa in termini di uso indiscriminato e inconsapevole del territorio alpino, con buona pace dei padri fondatori del Cai, che mai avrebbero pensato a conseguenze di questo tipo. Eppure, probabilmente, tale fenomeno va considerato come elemento di un processo evolutivo inevitabile ma necessario per arrivare a fare nostri concetti come turismo responsabile, rispetto dell’ambiente e sostenibilità.

A nostro avviso il cambiamento sostanziale avvenuto in questi ultimi anni nelle abitudini dei turisti non è tanto un ritorno all’attività fisica lungo i sentieri (sebbene il numero degli adepti sia effettivamente aumentato) quanto la modalità con cui tali sentieri vengono percorsi. Io e i miei colleghi Accompagnatori naturalistici notiamo come l’escursionista oggi sia diventato un soggetto attento, curioso, che ama immergersi in una realtà lontana da quella in cui vive abitualmente. Vuole vedere, capire, identificare ad esempio le tipologie abitative alpine. Più che la famiglia a cui appartiene una pianta è interessato all’uso culinario o medico che il valligiano ne ha fatto per secoli. È attratto da tutto ciò che appartiene a quella cultura. E sa benissimo, il “turista sweet”, che tutto ciò è fattibile solo muovendosi lentamente, guardandosi attorno, prendendosi tutte le pause del caso. Il fine ultimo non è più “conquistare una vetta” o “chiudere un anello”, ma diventa semplicemente una scusa per vedere, capire, e farsi raccontare.

Tutto ciò ha fatto sì che negli ultimi anni il nostro lavoro di accompagnatori sia notevolmente cambiato, come è cambiata la percezione del nostro mestiere. Dal canto nostro abbiamo dovuto ampliare la formazione, per poter declinare l’escursione non più esclusivamente in termini naturalistici. L’aspetto antropologico ha assunto un’importanza predominante, e oggi noi ci sentiamo in qualche modo portatori di cultura. Durante le mie passeggiate, specie durante trekking di più giorni, mi trovo spesso a ragionare con i miei clienti sul piacere di camminare senza fretta, semplicemente per spostarsi da un rifugio all’altro, e di come questa visione vada a cozzare con una vita vissuta perennemente di corsa, come spesso capita nella quotidianità urbana. Quando osserviamo ad esempio il lavoro di un pastore, i suoi legami con il territorio circostante, i suo gesti lenti e ritmati, ci troviamo a ragionare sul fatto che forse un sistema meno frenetico potremmo tentare di adottarlo anche noi nella vita di tutti i giorni. Ovviamente in questi casi io non sono in grado di suggerire risposte plausibili ai miei clienti, posso solo svelargli forme di turismo più dolce, meno impattante. Saranno poi loro a fare le dovute riflessioni. La mia speranza è che una volta tornati nelle grandi città i miei clienti possano portare con se un po’ di quella cultura che, anche se fisicamente dista poche decine di chilometri, sembra essere distante anni luce dal loro vissuto quotidiano.
Andrea Arnoldi