Due rigogliose viti intrecciate con pampini e grappoli d’uva sormontati da un sole ridente, al centro la scritta “Jamais sans toi”. E’ il simbolo del comune di Chiomonte, realtà dell’Alta Valle Susa, oggi all’onore della cronaca più per le vicende legate alla tratta Tav-Tac Torino-Lyon che per la tradizionale attività vinicola tra i 1000 e i 1200 metri d’altitudine, vero record nelle Alpi e in Europa.
Oggi, per inaugurare questa nuova rubrica “Eco della montagna”, di cui mi occuperò personalmente, mi trovo in val Clarea, scoscesa vallata secondaria della Val Susa, un fazzoletto di terra ultimamente al centro del dibattito nazionale in più occasioni: dapprima come luogo di scontri tra forze dell’ordine e oppositori all’opera ferroviaria, è adesso una meta per giornalisti e politici in cerca di notizie e popolarità. Prima che tutto questo accadesse, e cioè prima del cantiere del giugno del 2011 per la costruzione del cunicolo esplorativo da 7,5 km, funzionale al futuro tunnel di base da 57, la zona della Clarea, e in particolare della Maddalena, era conosciuta per il suo museo archeologico e per essere il principale centro vitivinicolo della valle. Il primo è diventato il centro del comando di sicurezza del cantiere mentre i vigneti e la cantina sociale rimangono praticamente inaccessibili.

L’area vitivinicola, già presente in alcuni scritti e carte del XVI secolo, ha avuto un forte impulso rigenerante grazie al “Progetto Vigne” degli anni ‘90 grazie al quale è stato possibile riportare al centro dello sviluppo un prodotto locale e un mestiere capaci di recuperare il paesaggio e preservarlo dal rischio idrogeologico. Il “Progetto Vigne”, voluto come compensazioni dei lavori dell’ autostrada A32, ottenne un finanziamento europeo di sei miliardi di lire (soldi pubblici), che rese possibile il rilancio dell’attività vitivinicola attraverso numerosi sforzi quali la ricomposizione fondiaria, la piantumazione di vitigni autoctoni e l’investimento in tecniche di vinificazione moderne ed in evoluzione.
Ad oggi la produzione annua si aggira sulle 25 mila bottiglie di vino doc (denominazione ottenuta circa 16 anni fa, grazie all’interessamento della Provincia di Torino), prodotte da numerose attività imprenditoriali consorziate che apportano le proprie uve alla cantina sociale della Comunità Montana, localizzata in prossimità dell’area di sicurezza, e raggiungibile dal 2011 dai proprietari autorizzati solo dopo aver superato un doppio varco controllato da forze dell’ordine e dell’esercito. Proprio la condivisione forzata di molti terreni e delle strade di accesso tra attività vitivinicola e controllo della legge, sono alla base delle difficoltà che il viticoltore locale affronta quotidianamente. Attorno alla zona di cantiere sorge un’area più esterna ad accesso limitato, delimitata dalle barriere new jersey in cemento sormontate da reti metalliche, che racchiude al suo interno vigneti e strade d’accesso. L’estesa area, riconosciuta come area di interesse strategico nazionale dal 2012, è sorvegliata e delimitata da cancelli metallici piantonati h24 da forze dell’ordine e dall’esercito. I viticoltori locali denunciano come il sopraggiungere del cantiere abbia causato grossi problemi alla loro attività. Prima di tutto per “l’impossibilità di accedere ai vigneti”, se non con richiesta formale a prefettura e questura per chiunque, anche solo per chi a titolo amichevole intenda aiutare e intervenire in qualsiasi fase della coltivazione della vigna. Nel periodo della vendemmia, durante i giorni più frenetici dell’anno per i viticoltori, la necessità di poter lavorare liberamente senza disagi e perdite di tempo viene completamente disattesa. Ma non basta, la difficoltà di accesso riguardano anche ricercatori universitari, gli interessati alle sperimentazioni della Provincia di Torino e i tecnici dell’Istituto Malva Arnaldi che lavorano sulle nuove tecniche di vinificazione del “famoso” vino del ghiaccio ottenuto dal vitigno Avanà.

L’inacessibilità dell’area sta iniziando a innescare processi di abbandono che comportano come conseguenza, ancor prima del dissesto idrogeologico, la formazione di focolai di malattie di facile diffusione tra le piante a partire proprio dai vitigni abbandonati; la prima conseguenza  tangibile della massiccia presenza dei militari in Valle di Susa, ormai stanziati da oltre tre anni, pare proprio ricadere su chi ha da sempre puntato sul rilancio di un’economia sostenibile a basso impatto ambientale.
I viticoltori da me incontrati denunciano inoltre la “distrazione” di alcune pattuglie militari che, perlustrano l’area di interesse strategico, spesso dimenticano i cancelli dei vigneti  aperti, “un cordiale invito per gli ungulati, caprioli e cervi, che entrando tra i filari si cibano delle piante con la conseguente perdita dei raccolti”. Ma i viticoltori che ho incontrato si sono dimostrati pazienti di fronte a questa situazione e fortemente intenzionati a proseguire il loro impegno più che ventennale. Ci tengono a sottolineare che le loro segnalazioni “non vogliono essere delle lamentele bensì delle richieste di parità di trattamento e di rispetto del lavoro tra chi opera in funzione del cantiere e chi per passione o per lavoro coltiva il vigneto”. Ma vi voglio portare anche la voce di molti dei viticoltori professionisti, che cominciano, esasperati, ad alzare la voce:al la fatica a svolgere l’attività agricola all’interno del cantiere, si sommano la  mancanza di informazioni sulla durata del cantiere l’impossibilità di comunicare il valore aggiunto di un territorio così particolare e difficile da lavorare.
Oggi un potenziale acquirente, impossibilitato ad accedere liberamente ai vigneti, non può godere di un’esperienza piena in grado di fargli comprendere il risultato degli sforzi finora intrapresi per una coltura, adesso più che mai, definibile “eroica”.
Erwin Durbiano