Se l’archeologia è la scienza che studia le culture umane del passato e le loro relazioni con l’ambiente circostante mediante l’analisi delle tracce lasciate, la sua particolare declinazione sciistica nell’ambito piemontese dal dopoguerra a oggi restituisce lo spaccato di una realtà tanto significativa quanto irrisolta, nonché un monito da metabolizzare necessariamente nel forgiare i destini dei territori alpini della contemporaneità e del futuro. Percorrendo le terre alte occidentali, ci si può infatti facilmente imbattere nei lasciti dell’epoca ormai drasticamente tramontata del turismo montano di massa.
Tra le pieghe dell’oblio offerto da versanti e valloni ormai poco accessibili e frequentati si cela una fitta costellazione di luoghi abbandonati dai caratteri spettrali: insediamenti concepiti esclusivamente per il turismo sciistico -variamente declinati per dimensioni e portata- impiantati dal nulla e spesso consumatisi nella parabola di poche stagioni se non addirittura mai abitati né utilizzati, ormai dismessi da decenni e lasciati allo stillicidio lento e incessante del degrado naturale. Grumi metafisici di edifici residenziali, alberghi e ristoranti, apparati e nastri d’infrastrutture per la risalita meccanizzata fino alle più alte quote; ma anche e soprattutto cantieri e intenzionalità interrotte, scheletri evanescenti di cemento fradicio e metallo arrugginito.
Immersi in un silenzio pervasivo, gli oggetti della quotidianità turistica e gli strumenti di cantiere conservatisi sotto solai pericolanti o sparsi in una vegetazione che si rimpossessa simbolicamente degli spazi, si trasfigurano in testimonianze immediate dell’epoca da cui provengono, quella del miracolo economico e dei suoi lunghi strascichi. Il modello di lettura e approccio al territorio montano allora perseguito è del tutto assimilabile a fenomenologie di matrice industriale, i cui capisaldi si sublimano in parole chiave come progresso, turismo, sviluppo illimitato a tutti i costi: il ricco palinsesto alpino si riduce così a terreno di colonizzazione spregiudicata e di consumo sistematico, perpetuato a colpi di calcestruzzo, ferro e eternit.
Sebbene il rigetto e il fallimento – prima di tutto ontologico, poi gestionale ed economico – di questi modelli insediativi sia imputabile a cause molteplici (cambiamento climatico, marginalità e limitatezza dell’offerta, mutati gusti del pubblico, diversi flussi e dinamiche socio-economiche), la sua radice risiede nel tentato snaturamento della montagna in un surrogato della città, nell’addomesticamento della sua inaccessibilità, nella corruzione della sua integrità identitaria in nome della mercificazione, della massificazione.
Queste cicatrici sinistre sul suolo montano rappresentano pertanto oggi il lamento di un passato che ha usato il territorio in maniera sconsiderata, abbandonandolo in preda agli orizzonti sterili di autodeterminismo e frammentazione, di speculazioni e laissez-faire del tutto orfani di visioni integrate e lungimiranti alla grande scala che riallacciassero geografie, vocazioni, progettualità, necessità e possibilità reali dei luoghi.
Tuttavia grazie a una progressiva presa di coscienza che qualsiasi intervento antropico in montagna è un gesto invariabilmente invasivo in un contesto delicato, e forse anche grazie agli errori commessi, il cambio di direzione verso modelli di percezione e fruizione consapevole e leggera del territorio alpino è qualcosa che opportunamente e finalmente oggi non appare più come una chimera, ma un benvenuto embrione.
Stefano Girodo
Chiunque volesse contribuire a segnalare realtà simili: stefanogirodo@hotmail.it
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