Nell’estate del 2011 stavo lavorando al mio OFF. In viaggio nelle città fantasma del Nordovest. Non mi sembrò vero incappare, quasi per caso, nel primo “Festival nazionale del ritorno ai luoghi abbandonati”, che si svolgeva a Paraloup (Cn), storica borgata partigiana abbandonata, e dintorni. Nel pieno dei festeggiamenti per i centocinquant’anni dall’Unità d’Italia, per la prima volta incontravo così testimoni e studiosi dell’abbandono, singoli e associazioni con sensibilità e approcci distinti accomunati però dall’interesse per un’altra Italia: quella dei piccoli comuni, dei paesi in abbandono, dei quartieri urbani fantasma che legano il Paese da nord a sud. Quelle persone si confrontarono per un paio di giorni sulle possibili modalità, pratiche e teoriche, di ritorno nelle diverse “terre fragili”, in quei margini così centrali in tutta la nostra penisola. Obiettivo comune era ricominciare a parlare di questi territori come di una risorsa, del loro recupero come di uno scarto culturale, necessario per immaginare nuovi immaginari e paradigmi, sociali ed economici, in luogo dei modelli novecenteschi, il cui fallimento ci viene ricordato ogni giorno dalle cronache nazionali e internazionali. Quella due giorni si concluse con un appello pubblico sul tema, a cui ho aderito con entusiasmo, e con la sensazione diffusa che si fosse iniziato qualcosa di prezioso ma che nessuno ancora sapeva dove avrebbe condotto sino in fondo.
A due anni di distanza, siamo ancora all’inizio, ma abbiamo costruito una rete, Il paese che non c’è / Rete del Ritorno all’Italia in abbandono, per dare continuità a quella prima esperienza ed estenderne la portata. Il progetto, presentato ai Frigoriferi Milanesi lo scorso 19 febbraio, ha tra i promotori la Fondazione Nuto Revelli, l’Associazione Thara Rothas, Doppiozero, l’Associazione Davide Lajolo, Crissa / Centro studi sullo spopolamento calabrese, Terre di Mezzo street magazine, Comunità provvisoria dell’Irpinia e Re.Co.Sol, Rete Comuni Solidali, e tra i primi aderenti le associazioni Legambiente Piemonte Valle d’Aosta e Urbe / Rigenerazione urbana, il Pav / Parco arte vivente, interessando anche scrittori come Giorgio Vasta e Franco Arminio. Le aree di azione sono due: da una parte iniziative, incontri, confronti, dibattiti negli spazi “reali”; dall’altra un “diario di viaggio” web che ne racconti il percorso, contribuisca a farlo crescere attraverso il coinvolgimento di chi voglia dare una mano o semplicemente curiosare e aggiorni il calendario degli eventi. Entrambe hanno una geografia variabile, orizzontale, ovvero prenderanno le forme che via via risulteranno dalla sommatoria delle singole identità e contributi che i soggetti coinvolti vorranno e sapranno dare. Denominatore comune, l’istanza del ritorno come punto non di arrivo ma di partenza. Per questo abbiamo scelto il tornio quale simbolo: perché nell’etimologia del ritorno come “girare il tornio” c’è già la nostra idea del lavoro mentale, rotatorio, attraverso cui non rifugiarci in consolatorie fughe nostalgiche, ma far emergere nuove prospettive per un Paese, il nostro, in bilico.
Marco Magnone
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