Alla fine del mese di novembre 2012 si è tenuto a Torino il convegno dal titolo “I Beni Dea in area alpina: studiare,valorizzare, restituire”, che ha visto il contributo della Regione Piemonte, settore Musei e patrimonio culturale e dell’ex dipartimento di Scienze Antropologiche dell’Università degli studi di Torino. L’inziativa si è inserita nel quadro delle attività di ricerca promosse dal progetto E.CH.I finanziato dal programma di cooperazione territoriale Italia-Svizzera (2007-2013) al quale partecipano, oltre al Piemonte, le altre regioni italiane confinanti (Valle d’Aosta, Lombardia e Alto Adige con la provincia autonoma di Bolzano) e i tre cantoni Vallese, Ticino e Grigioni.

Un convegno intitolato a un oggetto di studio poco conosciuto, i beni culturali DEA, da parte di una disciplina, l’antropologia alpina, che vantando un centinaio d’anni tenta di ridefinirsi all’interno dei nuovi cambiamenti socio-demografici che interessano il proprio campo d’azione. Oggetti dell’artigianato locale, strumenti di lavoro, saper-fare, lavorazioni tradizionali ma anche feste, rituali, dialetti e narrazioni sono parte di un patrimonio culturale (non solo alpino beninteso) che in Italia è stato riconosciuto tale solo negli anni ‘90 del secolo scorso. Risale infatti al 1998 il disegno di legge n. 112, “Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali”, in cui il patrimonio demoetnoantropologico viene posto accanto a quello storico-artistico.
Dall’altra parte l’antropologia alpina, nata con una pioneristica ricerca sui culti a San Besso nella Valle di Cogne da parte dell’antropologo Robert Hertz nel 1911. Disciplina che ha subito una notevole battuta d’arresto per poi ridefinirsi a partire dagli anni ’70 del Novecento. È in questi anni che alcuni antropologi americani, in particolar modo John Cole ed Eric Wolf – nonché l’allieva di quest’ultimo Hariette Rosenberg – “scalano” le Alpi. Da quelle trentine a quelle francesi, vengono avviati studi di comunità, ormai divenuti dei classici, che hanno il merito di sfatare la visione di arretratezza e isolamento delle società montanare. Ma non bisogna dimenticare anche studiosi italiani i cui contributi sono stati pubblicati inizialmente in inglese, come il famoso Upland Communities di Pier Paolo Viazzo.
Ora, superato il tracollo demografico e l’abbandono in molte regioni alpine, e subentrati nuovi campi di ricerca, l’antropologia alpina si interroga su quali contributi possa apportare nel quadro della riconfigurazione delle nuove comunità.
Il sottotitolo “Studiare, valorizzare, restituire” è quindi esemplificativo della necessità di porsi in un’ottica comparativa e interdisciplinare. Il convegno si è aperto ai contributi di altre discipline, dalla geografia all’architettura, e a studiosi provenienti da tutto l’arco alpino.
Numerosi gli spunti emersi nel corso dei lavori, come la consapevolezza di cosa si intende studiare attualmente, recuperando la nozione di comunità locale e sottolineando il concetto di agency dei nuovi attori sociali – molti dei quali neomontanari – che ridefinisco identità e appartenenze. Molti partecipanti hanno apportato l’avanzamento delle proprie ricerche su alcune tematiche quali feste, badie e milizie, ma anche sui musei etnografici e i Carnevali. A tal proposito si è evidenziato come sovente nella disciplina si rischi di fare proprio l’oggetto di studio dando avvio a processi di valorizzazione che, probabilmente, senza la presenza dello studioso non sarebbero emersi. In un panorama fluido, in cui le Alpi sono al centro di ridefinizioni continue, chi ha il diritto di fare propri aspetti della cultura alpina? Chi sono i detentori di tali saperi?La domanda è rimbalzata durante l’ultima giornata d’interventi, quella maggiormente interdisciplinare, dove geografi, antropologi e architetti hanno dibattuto il tema del recupero di beni materiali, dai terrazzamenti agli edifici vernacolari, inestricabilmente legati alla dimensione maggiormente immateriale della lingua, delle denominazioni locali e dei saper-fare.Il dibattito, molto sentito tra i partecipanti, ha avuto il merito di creare nuova linfa per gli studi sulla cultura alpina, non vista in un’ottica essenzialista bensì aperta alle innovazioni e ai nuovi modi di abitare la montagna.
Maria Anna Bertolino