Antonio De Rossi e Roberto Dini, Architettura alpina contemporanea, Priuli & Verlucca, Scarmagno 2012, pp. 160, euro 25

Priuli & Verlucca festeggia la centesima pubblicazione della prestigiosa collana dei “Quaderni di cultura alpina” con un doppio numero dedicato all’architettura alpina contemporanea. Questo il titolo del volume, dalla grafica elegante ma vivacizzata (pur senza tradire la cifra distintiva della collana), di Antonio De Rossi e Roberto Dini, rispettivamente docente e ricercatore di progettazione architettonica presso il Politecnico di Torino. Un esaustivo catalogo di 219 opere, restituite attraverso altrettante schede, divise per gruppi di destinazioni funzionali (residenza; turismo, infrastrutture e cultura; rifugi; edifici pubblici; edifici produttivi e commerciali; edifici di culto), accompagnate da oltre 300 immagini tutte a colori. Il compendio è preceduto da poche ma densissime pagine introduttive che danno ragione delle scelte d’inclusione o meno nella lista da parte degli autori e delineano i temi portanti. Si tratta di un’eccellente quanto necessaria fotografia dello stato dell’arte inerente la produzione architettonica di rilievo sull’intero arco alpino dalla fine degli anni ottanta a oggi. Gli autori identificano infatti il termine storico di partenza giustamente in corrispondenza di quella “nuova vita delle Alpi” (per dirla con Enrico Camanni) in cui i territori montani si affrancano dalle forme di subordinazione rispetto alle realtà urbane che li consideravano solamente insignificanti propaggini geografiche o terreni da sfruttare per pratiche sportive massificate. Nel 1991, la Convenzione delle Alpi sancisce questo diverso status, e il territorio che la riguarda è anche il confine entro cui sono state individuate le opere. Con alcune eccezioni, giustificate dagli autori che cercano di decostruire il concetto, mobile nel tempo e soggettivo nelle elaborazioni culturali, di “architettura alpina”, dopo averne ripercorso la genesi e le principali modificazioni in chiave storica.

E qui sta l’elemento più interessante da discutere. Alla domanda, per nulla oziosa, se esista un’architettura alpina, De Rossi e Dini rispondono ancorando il concetto agli aspetti relazionali con il contesto (che non implicano per forza concessioni nei confronti di mimetismo, storicismo o regionalismo) e alla dialettica col limite «costituito dall’altitudine, dalle temperature, dalla neve, dai venti, dalle performances dei materiali in ambienti estremi, dalle fatiche e dai costi dei cantieri di costruzione, ma anche dalle modalità con cui l’architettura si confronta con la montagnité – direbbero i francesi – della montagna (il vuoto, il pendio, il precipizio)». E qui, certamente per via della loro autentica passione (anche escursionistica o alpinistica) per le terre alte, mostrano un eccesso di generosità nell’includere nella lista interventi situati in taluni fondovalle (da Aosta a Ivrea, o intorno ai laghi ticinesi, a poco più di 200 m di quota) che ben poco hanno a che spartire con tali problematiche (magari invece più presenti, rispetto al tema della montagnité, su un aspro declivio marittimo delle Cinque terre o presso le Calanques).

Quali geografie e immagini scaturiscono dalla foto? Una netta prevalenza di tre aree (Grigioni, Vorarlberg, Alto Adige) che, in quanto a qualità delle opere, non hanno pari. E, se si comprende l’intento “enciclopedico” della pubblicazione in direzione del geographically correct, va detto che molte altre se ne potrebbero includere in quei territori e molte meno ancora nei restanti (tra i quali, un po’ a sorpresa, la Francia, e non certo per carenza d’indagine). Ciò dimostra come in quelle aree l’architettura sia diventata un vero e proprio laboratorio di sperimentazione: dalla fenomenologia della committenza alle politiche pubbliche, dai linguaggi formali alle modalità tecnico-costruttive. Sui primi due fronti va ad esempio rilevato, accanto all’edilizia scolastica e ai servizi, agli interventi per la cultura e per le infrastrutture, soprattutto l’housing: aspetto particolarmente inedito in quanto legato all’abitare per la residenza e non più per l’insediamento turistico. Sugli altri due fronti, invece, va rilevato un maggior spessore delle ricerche nel saper interpretare, senza ripiegamenti nostalgici, i fecondi quanto sdrucciolevoli legami con la “tradizione” e i suoi immaginari. Tale lettura emerge anche dal saggio in cui i due autori si divertono a codificare le diverse “famiglie di atteggiamenti” progettuali.

Riuscendo quasi sempre a eludere il rischio dell’autoreferenzialità disciplinare che in genere connota la pubblicistica di architettura, il libro centra così l’obiettivo d’interessare un pubblico allargato all’intera comunità degli addetti ai lavori (dai decisori pubblici, ai committenti, ai costruttori), fino ai semplici appassionati (di montagna come di architettura).
Luca Gibello