Il recente fenomeno del recupero di spazi alpini abbandonati e la tutela e valorizzazione del patrimonio architettonico rurale si pongono in netto contrasto con l’abbandono e lo spopolamento a cui erano soggetti i territori montani nel recente passato. Se negli anni ’90 del secolo scorso sono partiti i primi esempi di strategie bottom-up, attuate da abitanti locali per ripristinare il patrimonio edilizio, attualmente il fenomeno ha catturato l’attenzione crescente anche da parte di organi istituzionali.

Il fenomeno sta assumendo una valenza e una portata culturale del tutto originali, investendo non solo nuovi campi quale l’architettura rurale, ma connotandosi di nuovi significati e soprattutto di nuovi protagonisti. Come l’antropologia alpina, interessata a indagare le nuove dinamiche sociali che sottendono tali recuperi.

Cosa significa quindi un’analisi antropologica di questo fenomeno? Innanzitutto domandarsi di quale tipo di ritorno stiamo parlando. La rivitalizzazione delle borgate è sintomatica di nuove progettualità diffuse che sviluppano un senso e un sentimento per i luoghi. Come sottolinea l’antropologo Vito Teti, essi non sono né astorici né immobili: i luoghi, infatti, vengono fondati, si modificano, muoiono e possono rinascere mentre i segni lasciati dall’uomo nell’attività di trasformazione degli elementi naturali ne esprimono la peculiarità. Non si può quindi parlare di recupero di borgate alpine senza fare riferimento anche al ripopolamento, seppure in numeri molto esigui, da parte di nuovi abitanti, ovvero di coloro che si impegnano in prima persona contrastando il degrado e rifunzionalizzando gli edifici.L’analisi della nuova popolazione rurale ha portato a distinguere alcune categorie di “nuovi abitanti”. C’è chi utilizza per brevi periodi le zone rurali, come turisti, proprietari di seconde case o pendolari, conosciuti come rural users. Coloro i quali scoprono le aree rurali quali possibili zone in cui svolgere un lavoro agricolo, e sono prevalentemente soggetti stranieri inseriti nel mercato dei lavori stagionali. Quelli che, per una scelta di vita, si recano nelle aree rurali con nuove progettualità imprenditoriali, non solo legate al mondo agricolo ma anche servendosi delle nuove tecnologie e dei servizi via web, decisi a sfuggire a ritmi e orari imposti dalla città. Infine, soggetti che migrano successivamente al termine dell’attività lavorativa per la miglior qualità di vita che la montagna offre (amenity migration).

Per il recupero di spazi alpini bisogna quindi parlare di multifunzionalità, proprio per andare incontro a queste categorie di nuovi abitanti: eventuali ripopolamenti devono essere legati alla creazione di nuovi lavori relativi al recupero ambientale (protezione dei suoli e sistemazione di prati-pascoli), al turismo di nicchia, alla produzione artigiana tali da indurre alla valorizzazione di prodotti locali e alla ripresa di produzioni tipiche spesso fonte di attrazione in un processo sociale che dalle eredità culturali giunge dunque alla valorizzazione delle risorse locali. Tali fattori contraddistinguono i cosiddetti territori lenti, dove emergono sensibilità diverse in tema di recupero del patrimonio architettonico e di riqualificazione paesaggistica di cui occorre indagare le motivazioni che spingono questi attori sociali a impegnarsi, molte volte impiegando capitale personale, il legame precedente – e dunque la familiarità – con il territorio, le concezioni che ruotano intorno al paesaggio alpino ma anche i valori di cui il paesaggio rurale è portatore: esso è una sorta di archivio storico che informa il procedere degli addetti ai lavori che si impegnano, proprio laddove si  è rotto il filo della memoria per evidenti cause demografiche, in un’archeologia territoriale.
Passando ora all’osservazione diretta del territorio delle Alpi piemontesi, si possono riconoscere alcuni interventi di recupero e di valorizzazione, che si possono sintetizzare nelle seguente tre categorie: Patrimoniale, Sentimentale-affettivo e Consapevole.

Appartengono alla prima quegli spazi alpini che divengono risorsa patrimoniale in virtù del loro essere testimonianza di una vita passata: è questo il caso della borgata Balma Boves di Sanfront (Cn), o di borgate-laboratorio come il  villaggio medievale di Gesh sito nel comune di Montecrestese (Vb), in Valle d’Ossola. Il rischio di tali interventi è il costituirsi a esclusivo prodotto del passato con effetti di museificazione che contrastano con la visione dinamica del patrimonio stesso, fatto di permanenze ma anche di innovazioni.

Gli interventi di recupero definiti Sentimentali-affettivi sono quelli come l’esempio del Burcet, una frazione del comune di Roure (To) in Val Chisone. Un territorio da sempre via di transito verso la Francia, che ha vissuto sin dagli anni ’30 del Novecento uno sviluppo industriale repentino, con l’installazione di fabbriche di cotone e seta che hanno favorito l’emergere di una classe operaia e l’inevitabile esodo di famiglie dall’alta valle. In tale esempio si è partiti dalla volontà di alcuni privati mossi da un legame con il territorio e dal riconoscimento del valore di un patrimonio edilizio in decadenza. L’impiego di capitale privato e di manodopera “di prima mano” composta da volontari, ha permesso notevoli azioni su più fronti quali: il restauro del mulino a ruota orizzontale, della chiesa, dell’ex parrocchiale e della ex scuola attualmente trasformate in una struttura ricettiva e in un centro ricreativo-culturale. Il ripristino della coltivazione della patata, prodotto locale tipico come testimoniato da fonti storiche e orali, offre lavoro a tre produttori locali che a tutt’oggi producono circa venti tonnellate commercializzate anche all’estero. Il recupero dei terrazzamenti e dell’alpeggio e l’introduzione di nuove colture come i piccoli frutti. Il lavoro di questi privati, di cui solo uno residente fisso, è anche un recupero della memoria attraverso il lavoro d’archivio sulla storia riguardante la fondazione dell’insediamento, sulla trasformazione del paesaggio e sulla storia degli abitanti.

Infine nell’ultima categoria, Consapevole, si identificano quegli interventi di recupero di borgate facilmente accessibili e con un patrimonio architettonico come base su cui investire e fattore di attrazione per nuove attività. Un esempio viene dal comune di Ostana (Cn), caso studio e laboratorio per una nuova abitabilità nelle Alpi. Singolare esempio di arrivo di nuovi abitanti che qui hanno già installato attività in particolar modo legate alla ricettività. Nel caso specifico del recupero della borgata, essa, soggetta alla normativa regionale, dovrà rispondere ai parametri di bioarchitettura, di basso impatto ambientale e di vitalità demografica. Soprattutto vi sapranno convivere nuove attività ed esigenze, che sfrutteranno il telelavoro e la banda larga, con il riutilizzo di spazi tradizionali, che saranno invece adibiti a caseificio e al ripristino delle stalle per il bestiame in loco. Qui sorgerà inoltre un centro polivalente in cui si installerà una scuola per registi e una scuola di architettura alpina.

La carrellata di casi concreti di recuperi di borgate in atto sottolinea come la società post-industriale, attraversata da profonde crisi che vanno ben al di là di quella meramente economica, abbia finalmente assegnato agli spazi alpini funzioni che travalicano l’essere esclusivamente un bacino di risorse e di beni comuni spendibili dalla pianura in un’ottica urbano centrica. E questa sorta di riscoperta dei territori investe oggi problematiche che vanno dalla conservazione della memoria storica delle culture locali alla salvaguardia dell’ambiente.

Questi patrimoni culturali e paesaggistici, di cui l’architettura tradizionale può a buon diritto rientrare, muovendo attività e servizi di varia natura entrano a far parte di reti di un sistema territoriale più ampio, sovra-locale e sovra-nazionale, tale che il loro recupero e la loro valorizzazione possono divenire gli elementi di svolta rispetto alla marginalità della montagna.
Maria Anna Bertolino

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