Per la maggior parte di noi la montagna è un oggetto semplice. Da passeggiare, scalare o da sciare, da abitare per fuggire alla complessità e al rumore della città, la montagna è vacanza. E’ altro dalla città. La montagna darebbe invece “da pensare” se abbandonassimo molti pregiudizi e luoghi comuni: le sue vette immacolate, i montanari come gente dura ma vera, la natura con le sue regole immutabili; che bisogna frenare lo spopolamento, recuperare i paesi abbandonati, i campi incolti; che si contrappone alla città, che l’ambiente e la sua cultura sono un patrimonio del passato (da conservare e, se possibile, sfruttare turisticamente). Che il futuro della montagna è nel turismo; che è l’ambiente ideale per vivere in armonia con se stessi, con la natura e con gli altri.
La montagna darebbe da pensare se ci capitasse di cambiare i nostri soliti modi di guardare, di sentire; un esempio può essere il binomio, semplice a prima vista, del fieno e le vacche. Chiacchiero con un amico, guardando l’altro versante della valle illuminato dal sole. Guardiamo lo stesso paesaggio ma lui vede cose che a me sfuggono. «Guarda quei prati di fianco a quel paese – mi dice. – Saranno cento ettari, più o meno. E nel Comune ci saranno 250 vacche che potrebbero avere fieno a sufficienza. Potrebbero. Invece il fieno viene tagliato e portato da un allevatore in pianura e le vacche locali mangiano insilato». Ma poi anche questa sarà ancora una semplificazione (si è alzato soltanto un primo “velo”) perché in effetti è tutto più complicato: al binomio vacche e fieno non abbiamo ancora aggiunto gli uomini, i loro interessi, le loro relazioni, le loro storie. Soltanto andando a vedere questi “dettagli” possiamo scoprire con che tipo di storie, contingenze e personaggi abbiamo a che fare. E dovremmo averci a che fare se pensiamo che il ripopolamento delle montagne, quindi delle borgate, sia necessario; anche per la pianura e le città. Perché, si dice, l’uomo ha la funzione insostituibile di “presidio” del territorio: quindi di far sì che non crollino i muri a secco dei terrazzamenti e gli alberi nei torrenti; che poi si ingrossano, diventano violenti e fanno danni in pianura, dove ci sono le città. Bisogna quindi sostenere l’uomo come presidio del territorio. Ma poi evidentemente lo stesso uomo svolge attività che, come vediamo ogni giorno da decenni, producono effetti nefasti sull’ambiente e, in montagna, le borgate vivono – nel piccolo – le medesime contraddizioni della pianura e delle città. Fino a 60 – 70 anni fa gli abitanti della montagna si prendevano cura del territorio e del bene comune – cura delle sorgenti, manutenzione di strade e sentieri anche collaborando tra loro – perché questa era la condizione necessaria per vivere, spesso soltanto per sopravvivere. Chi vive oggi in montagna non è più, in genere, in queste condizioni e molto spesso la borgata è diventata una sorta di condominio diffuso.
Quindi, se riusciamo a evitare le idealizzazioni e a vedere la realtà complessa anche nelle piccole società locali, negli uomini che stanno in un modo o nell’altro “insieme”, scopriamo che al recupero architettonico delle borgate si potrebbe utilmente affiancare un loro recupero “sociale”; che non significa solo auspicare nuovi abitanti, ma anche inventarsi e sperimentare nuove occasioni per riprendere a stare insieme, ad abitare in nuovi modi lo stesso luogo. Potrebbe voler dire far diventare le borgate e le valli, dei laboratori di socialità in cui sperimentare attività utili per il territorio, anche per quello urbano. Così come si potrebbero “importare”, adattandole al contesto, alcune pratiche in uso nei processi di “riqualificazione e rigenerazione urbana” in atto in città; uno scambio che potrebbe essere arricchente e che potrebbe contribuire a portare la questione dei rapporti città-montagna in un contesto operativo di alleanze e collaborazioni. Indizi di recupero sociale si cominciano a intravvedere in alcune borgate alpine, ma occorre avere occhi allenati, per vedere e per far vedere: spesso gli stessi autori di queste iniziative (amministratori locali, pro loco, associazioni) non si rendono conto delle potenzialità che stanno attivando. Le corvée, per esempio: lavori che ogni famiglia era chiamata a svolgere gratuitamente per la manutenzione di strade, acquedotti e altre opere di utilità pubblica, sono ora riproposte da alcuni giovani amministratori locali valorizzandole come momenti di incontro e di conoscenza tra abitanti e villeggianti, con gli stessi amministratori che vi prendono parte attivamente; il risultato è che, con le necessarie e non banali attenzioni al come si lavora e si sta insieme, migliora il “clima” relazionale nel paese, il rapporto tra cittadini e amministratori e la sfiducia e la diffidenza endemiche cominciano a mostrare qualche crepa. Dovremmo riflettere su tutto ciò, perché una borgata, una valle, la montagna potrebbero essere un prezioso laboratorio di sostenibilità e di nuova socialità: un luogo in cui le contraddizioni del nostro tempo non sono affrontate solo dall’alto dei poteri e delle istituzioni, ma anche dall’interno dei luoghi stessi in cui nascono e si consumano.
Boris Zobel