Quando diciamo “città” siamo portati a pensare a un ammasso di edifici piuttosto esteso e continuo, in opposizione a “campagna”, dove gli edifici sono pochi e poco ammassati, anzi sovente piuttosto sparsi. Ma così facendo ci fermiamo a delle apparenze che, tra l’altro, appartengono al passato. Se a metà del Settecento avevano ragione Diderot e D’Alambert (gli autori della famosa Encyclopédie) a definire la città come un agglomerato di edifici e di strade, ai nostri tempi vale sempre più quello che Marcello Fois dice di Nuoro degli anno ’50: «quanto più il paese cresceva, tanto meno diventava città» (Nel tempo di mezzo, p. 189). Oggi l’essenza della città, almeno da noi, si è separata in buona parte dalla dimensione fisica. Se non fosse così Città del Messico dovrebbe essere sessanta volte più città di Firenze o di Zurigo.
In realtà tutti sanno che quello che da sempre qualifica la città è l’intensità, la qualità, l’importanza delle relazioni tra gli abitanti, quello che i latini chiamavano civitas e che distinguevano giustamente da urbs, il costruito, sapendo bene che le due cose possono anche non coincidere. Ad esempio pensate all’importanza dei monasteri nel medioevo, nodi di relazioni culturali, politiche ed economiche, grazie a un’intensa circolazione delle maggiori teste pensanti dell’epoca, capaci di produrre conoscenza e innovazione, cioè quella che oggi consideriamo la funzione principale della città.
Se questa città-rete poteva funzionare quando si potevano solo fare poche decine di chilometri al giorno, a maggior ragione dovrebbe funzionare nell’era del web, quando tutti possono mettersi in relazione con tutti, a prescindere dalla distanza. Ma, si potrebbe obiettare, perché con il progresso delle telecomunicazioni (telegrafo, telefono, radio, ecc.) questo non è capitato già da tempo, mentre invece città e grande agglomerazione hanno continuato a crescere insieme fin oltre la metà del secolo scorso? Credo che, oltre a una certa forza d’inerzia dovuta alle abitudini, ai mezzi di trasporto e ai grossi interessi immobiliari, abbiano giocato due fattori che oggi sono diventati meno decisivi: l’accesso al lavoro e ai servizi. La massa del primo si è ridotta da quando si è ridimensionata, decentrata o addirittura delocalizzata la grande fabbrica fordista, con la conseguenza che i posti di lavoro sono oggi molto meno concentrati. Allo stesso modo si sono decentrati molti servizi e soprattutto oggi da casa col nostro pc possiamo fare molte cose che in passato ci tenevano legati all’agglomerato.
Tutto ciò finora ha però prodotto solo un parziale allentamento della concentrazione, sotto forma di crescita suburbana e peri-urbana (la cosiddetta “città diffusa”), con effetti sovente ancor più dannosi della precedente agglomerazione compatta. In parallelo si è però anche avuto il (diverso) fenomeno dell’urbanizzazione delle campagne. Mentre la grande agglomerazione (l’urbs) diventava meno necessaria, anche nelle campagne più lontane dalle grandi città (e quindi nella montagna) ci si è sempre meno adattati a vivere senza civitas, cioè senza quelle infrastrutture, opportunità di lavoro, di servizi, di vita culturale e sociale che caratterizzano la città. Se in passato per fruirne occorreva emigrare negli agglomerati urbani, non sarebbe oggi possibile avere queste cose godendo al tempo stesso dei vantaggi di un ambiente più sano, piacevole e tranquillo, meno pesantemente costruito?
Questo intendevo dire con l’affermazione che la montagna per salvarsi deve farsi città. Ovviamente nel senso di civitas. Un programma, mi rendo conto, più facile a dirsi che a farsi. Esso ha dalla sua parte solo il grande differenziale positivo di un ambiente decisamente migliore di quello della città agglomerata o malamente diffusa. Per il resto si scontra con serie difficoltà e minacce. Le difficoltà derivano dal fatto che il web non soddisfa tutte le relazioni umane di prossimità. Vedersi e parlarsi di persona, discutere, frequentare il bar, assistere a uno spettacolo dal vivo, divertirsi insieme ecc. sono tutte cose che richiedono la presenza fisica e quindi una dimensione demografica minima, al disotto della quale non c’è rete che tenga. E in molte parti della nostra montagna questa dimensione minima è già venuta meno o sta per mancare. Di qui l’importanza del re-insediamento di forze giovani, un tema che Dislivelli ha già trattato con Montanari per scelta (ed. F. Angeli, 2011) e sta ora indagando con la ricerca Novalp estesa a tutto l’arco alpino.
Le minacce derivano dal rischio che il necessario ri-popolamento della montagna finisca per riprodurre la peggiore urbs di pianura, distruggendo così l’unico grande vantaggio competitivo che essa può avere nei confronti di quest’ultima. Rinunciando tra l’altro a diventare il laboratorio di un nuovo modo di abitare e di rapportarsi con l’ambiente e il paesaggio, un problema che oggi interessa tutta l’umanità. Per questi ultimi temi rinvio ai lavori dell’Istituto di Architettura Montana (IAM) e del CED PPN, entrambi del Politecnico di Torino.
Giuseppe Dematteis