Marco Armiero, A Rugged Nation. Mountains and the Making of Modern Italy: 19th and 20th Century, The White Horse Press, Cambridge 2011, pp. 228
Lupi e fascisti, compagnie idroelettriche e alpinisti, memoriali di guerra e coleotteri convivono fra le pagine di questo libro. A qualcuno potrà sembrare strano. Non importa. Le montagne non si sono mai prestate all’ortodossia.
Per la maggior parte del pubblico generico di lingua inglese – spiega Marco Armiero – pretendere di scrivere un libro sulle montagne italiane è un’impresa intelligente e sensata quanto un progetto sugli alpeggi in New York City. Infatti, «nella divisione internazionale del lavoro della natura, le montagne sono dappertutto tranne che in Italia»: troppo selvagge e troppo “nordiche”, mancano degli ingredienti che l’immaginario turistico attribuisce all’Italianness, l’italica essenza tutta sole, mare e città d’arte. E pensare che proprio il nostro è uno dei paesi più montuosi d’Europa, con il 35% del territorio occupato dalle Alpi insieme agli Appennini e il 42% coperto da colline: è la matematica a consegnarci un ragguardevole 77% di superficie nazionale interessata da un qualche tipo di rilievo. Non c’è dubbio, l’Italia è a tutti gli effetti a rugged Nation, “un paese accidentato”. Eppure per lungo tempo nemmeno gli italiani se ne sono accorti, anche perché, a dire il vero, fino a poco più di 150 anni fa gli italiani nemmeno esistevano: contemporaneamente e in stretto rapporto fra loro hanno infatti preso forma l’Italia, gli italiani e la consapevolezza di un paesaggio nazionale sempre più conosciuto e sfruttato. In questo processo di presa di coscienza e di parallela “domesticazione” del territorio, “le montagne non si sono mai mosse, ma la loro posizione sulla mappa della nazione è cambiata” nel tempo. Sono state di volta in volta sacri confini e covo di briganti, serbatoi di energia idroelettrica e territori da bonificare e riforestare, rifugio di eretici e partigiani, patria di ragazzi obbedienti buoni da mandare al fronte, ghetti dove il fascismo ha cercato di rinchiudere i virtuosi montanari perché (ahiloro) non soccombessero alla corruzione della città. Marco Armiero, storico dell’ambiente e ricercatore del Cnr con esperienze di lavoro negli Stati uniti (Yale, Berkeley, Stanford) e in Spagna (Barcellona), investiga dal punto di vista eco-storico e utilizzando il caso della montagna, come la natura è entrata a far parte della narrazione nazionale dell’Italia moderna: «nazionalizzare le montagne ha voluto dire imporre significati, appropriarsi di risorse, rafforzare l’autorità dello Stato, ridefinire i confini fra ciò che è selvaggio e ciò che è domestico, saggio e irrazionale, bello e brutto; ha significato inoltre trasformare i montanari in cittadini e qualche volta i cittadini in montanari per cavare fuori gli Italiani dal suolo e dalle rocce».
Nell’ordine, vengono esaminate le montagne selvagge (Wild mountains, cap. I), ambienti selvaggi da addomesticare, ma spesso anche territori gone wild, inselvatichiti e resi inospitali dal sovrasfruttamento. Montagne da salvare con le prime controverse politiche di tutela, ma nello stesso tempo da sfruttare attraverso dighe, condotte, turbine in nome del superiore bene nazionale. Montagne da visitare e da scalare, da raggiungere e da consumare, montagne da difendere col sangue, bersagliate e modellate da “parole e bombe”. «Il risultato», scrive Armiero, «è un paesaggio ibrido» che nei passaggi della modernizzazione ha radicalmente ridisegnato anche il precedente paesaggio antropico segnato dal lavoro di generazioni. Per “domare la natura” occorreva anche “domare i montanari”, annullare le proprietà collettive tradizionali e imporre dall’alto alla montagna ruoli che prescindevano dagli interessi delle comunità locali. Le quali, in merito, hanno spesso avuto qualcosa da obiettare. Il secondo capitolo è infatti dedicato alle montagne ribelli (Rebel Mountains) e risulta particolarmente interessante per gli “alpologi puri”, perché allarga l’orizzonte della ricerca sulle terre alte includendo anche gli Appennini fra i luoghi del dissenso e dell’eresia, stringendo legami non banali fra il Messia del Monte Amiata e Palmiro Togliatti, fra Dolcino e le contestazioni No Tav in Val di Susa. Ribelli per eccellenza, non possono mancare i briganti, il volto ferino e ferito della montagna meridionale.
Il terzo capitolo del libro è dedicato alle montagne “eroiche” (Heroic Mountains), le montagne “frontiera” difese dagli alpini e modellate dalle necessità belliche e, a guerra finita, da un’imponente operazione nazionalistica di memoria fatta di monumenti e cenotafi.
L’ultimo capitolo è dedicato alle montagne scure, gravate dall’ombra della camicia nera (Dark Mountains). Qui Armiero analizza in modo approfondito l’ambivalente atteggiamento del regime fascista nei confronti della montagna e dei montanari: durante il Ventennio la montagna salutare è anche la montagna da salvare dal dissesto idrogeologico, le Alpi sono tanto un luogo sacro che una palestra d’allenamento e d’ardimento per le giovani leve, il montanaro prolifico e obbediente è anche l’italiano da rinchiudere con apposite leggi sui monti, perché non possa migrare in città.
Nell’Epilogo del libro, Armiero mette a confronto due casi recenti in cui la montagna italiana ha guadagnato, almeno per un poco, la sua “centralità” nella coscienza nazionale. Il primo è la Resistenza, momento in cui nell’immaginario collettivo la montagna riconquista il carattere di rifugio ospitale e insieme di fondamento del rinnovamento nazionale. Il secondo caso è il disastro del Vajont, che Armiero tratta a lungo come esempio colpevole e eclatante dell’occupazione della montagna da parte di interessi esterni, senza alcuna preoccupazione per la sorte dei montanari. Entrambi i casi, tuttavia, sono rimasti delle parentesi che ci si è sforzati di dimenticare o di stravolgere. Come le montagne.
«Per uccidere la speranza di futuri diversi hanno provato a cancellare anche i passati alternativi. Se il mio libro fosse riuscito almeno un po’ a contribuire a questa memoria resistente – ha dichiarato Armiero in un’intervista rilasciata a WuMing2 – allora sarebbe per me un buon risultato». L’evidente spinta etica che anima i contenuti del saggio, peraltro solidamente argomentati e documentati, lascia intendere come per Armiero fare storia dell’ambiente non sia solo occuparsi di una disciplina nel tentativo di far carriera accademica (anche perché, nel caso, avrebbe dovuto scegliere con più accortezza il settore di ricerca…): piuttosto «c’è bisogno di storia dell’ambiente perché c’è bisogno di cambiare il mondo», per citare una nota autobiografica dell’autore.
Attualmente A Rugged Nation è disponibile solo in inglese. Vale la pena citare ancora Armiero, che in merito commenta «una casa editrice italiana che ha valutato il libro per la traduzione ha detto che era asistematico e scritto in maniera poco accademica; che sia un buon segno?».
Irene Borgna
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