Visto da sinistra il lupo è un simbolo di libertà, visto da destra è un duro che si fa rispettare. Visto da sinistra il difensore del lupo è un uomo di pace, visto da destra il giustiziere del lupo è un uomo d’ordine.
Ma allora come la mettiamo con le povere pecore sbranate dal lupo? Non c’è simbolo più pacifico dell’agnello e non c’è immagine più prevaricatrice di quella del lupo che beve sopra la pecorella («superior stabat lupus») eppure la incolpa di sporcargli l’acqua.

Come la mettiamo allora? La mettiamo che il lupo e le pecore dovrebbero essere quanto di più apolitico esista su questa terra, insieme alla luna, alle farfalle e alle stelle alpine. E invece il lupo sta spaccando il mondo – almeno il nostro piccolo mondo piemontese – in due partiti agguerriti e distinti, senza se e senza ma; il lupo sta catalizzando estremismi e divisioni all’ultimo sangue. Ormai è diventato come il Tav: o stai di qua o stai di là, ugualmente sdegnato, senza mezze misure. Come il treno ad alta velocità, le pale eoliche, gli organismi geneticamente modificati e altre cento questioni italiane, il lupo non è più un tema o un problema su cui riflettere, ma un tabù ideologico. I dati non contano: conta l’appartenenza.
La questione è recente, ma ha solidi fondamenti storici. Il lupo era già un simbolo ben prima di salire alla chetichella dall’Appennino alle Alpi a portare gioia e rabbia in egual misura. La rappresentazione del lupo cattivo viene dal Medioevo e si è rinnovata nei secoli successivi. Nel 1573 Jacques du Fouilloux afferma che «fra tutti gli animali selvatici il lupo è sicuramente il più malvagio e il più nocivo; va cercato, inseguito e cacciato dai cani e dagli uomini». Tre secoli più tardi, nel 1863, Dunoyer de Noirmont scrive che «di tutte le grandi cacce, quella al lupo è la sola che abbia carattere di pubblica utilità». Secondo la credenza popolare (errata) il lupo attacca le persone e in particolare i bambini addetti al pascolo degli ovini. Le favole non l’hanno aiutato: oltre a Cappuccetto rosso, con il “cattivo” si confrontano i Tre porcellini di Orchard Halliwell-Phillipps e il Pierino della fiaba russa musicata da Prokof’ev. Dal lupo viene il nome del quartiere Louvre di Parigi e in Italia si contano mille toponimi dedicati: Prà del Luv, Buel del Lovo, Lova, Lupari, Lupicello, Lupaia, Lupicaia, Lupareccia…
L’era digitale ha riportato qualche decina di lupi sulle Alpi, ma non gli strumenti culturali per affrontarli. Da un lato nascono associazioni “per la difesa dell’uomo dal lupo”, in aperta polemica con l’approccio ecumenico del Progetto Lupo della Regione Piemonte, dall’altro emerge una visione largamente positiva da parte dei cittadini, come testimoniano i 246 racconti che hanno partecipato al concorso “Lupus in fabula” della Fondation Grand Paradis e del Parco nazionale. Tranne due o tre, gli autori stanno tutti dalla parte del lupo.
Nei racconti non appare quasi mai la problematicità del rapporto uomo-lupo, pastore-predatore, domestico-selvatico, ma il conflitto è traslato sul piano della metafora morale (lupo buono e mondo cattivo) ed è risolto attraverso la fantasia. Si ricade in un nuovo luogo comune, in cui la natura è quasi sempre buona e la civiltà cattiva. I piccoli sanno capire gli animali perché conservano sentimenti poetici e di pietà, gli adulti no perché sono materialisti. Sostanzialmente si ribadisce l’antico mito romantico della civiltà corruttrice, anche se poi nella realtà, paradossalmente, sono proprio i cittadini a prendere le difese del lupo.
In Francia il problema è altrettanto urgente, anche se è affrontato in modo diverso: i montanari di Barcellonette hanno creato l’associazione degli “Indignati dell’Ubaye” e si dichiarano disinteressati e non corporativi «perché nessuno di noi è allevatore, non siamo motivati da alcuna ideologia, agiamo semplicemente mossi dal buon senso a fronte delle flagranti ingiustizie determinate dalla presenza dei lupi che minacciano gravemente il mondo della pastorizia. Questa secolare attività presente “ab immemore” sulle nostre Alpi fa parte del nostro patrimonio umano, storico e naturale, occorre proteggerla e incoraggiarla, la qualità stessa del nostro ambiente ne dipende».
Ogni partito ha le sue ragioni, anche se negli ultimi tempi si sono dette e scritte un sacco di sciocchezze: che i lupi in Piemonte sono migliaia, che attaccano gli escursionisti, che sono stati introdotti dagli ambientalisti nelle nostre valli. A queste assurdità si contrappone la semplificazione idealistica di molti osservatori esterni, che non hanno pecore da difendere e vivono la montagna come una proiezione festiva dei loro sogni. Per loro il lupo è ancora l’animale delle favole, ma è diventato buono e giusto. Manca come sempre la visione complessa, che consiglierebbe al dibattito politico e culturale di occuparsi della montagna nel suo insieme, con il lupo dentro fin che c’è, senza fare del lupo un facile alibi per trascurare tutto il resto.
Enrico Camanni