“Di chi sono le Alpi?” è stato il titolo di un recente convegno internazionale tenutosi ad Agordo (Belluno). A questa domanda sono state date varie risposte dai numerosi relatori: geografi, storici, antropologi, architetti e molti altri. Una risposta-testimonianza dal mondo dell’allevamento di montagna era ricavabile dalla presentazione dei primi risultati del progetto ProPast (Studio della sostenibilità dell’allevamento pastorale attraverso l’individuazione e attuazione di linee di intervento e di supporto) avviato a fine 2010, coordinato dal Dipartimento Scienze Zootecniche di Torino, sollecitato e promosso dall’Assessorato Agricoltura della Regione Piemonte. L’indagine, dalle molteplici finalità, si è ricollegata ad attività di ricerca in corso o già svolte nella pluridecennale attività del Dipartimento in tema di zootecnia alpina. Vari esperti (zootecnici, ruralisti, pastoralisti, veterinari, sociologi e antropologi) sono stati coinvolti nel progetto con l’obiettivo condiviso di contribuire a difendere i sistemi pastorali tradizionali anche attraverso una corretta identificazione dell’odierna figura dell’allevatore di montagna. Numerose interviste effettuate nel corso del 2011 ad allevatori del territorio piemontese hanno messo in luce problematiche ed emergenze riguardanti lo stato attuale della pastorizia sulle Alpi occidentali.

Tra le svariate criticità vi è senza alcun dubbio il “problema” della predazione da lupo. Da specifiche indagini in alpeggio è emersa non solo la necessità di verificare l’idoneità e la praticabilità dei supporti e delle tecniche di allevamento suggerite per la protezione dal rischio di predazione, ma anche di avviare iniziative e azioni per la valorizzazione delle produzioni pastorali. Tali proposte sono fondamentali per una più completa disponibilità degli operatori alle misure di ‘convivenza’ con il predatore, problema che si è presentato come particolarmente serio e rilevante. I danni più gravi derivano non tanto e unicamente dagli effetti diretti (animale predato) quanto piuttosto dalle conseguenze indirette, connesse alle dinamiche della predazione e della gestione obbligata per la difesa (cali produttivi, inefficienze riproduttive, traumi, perdite accidentali, patologie parassitarie, stress degli animali: ovicaprini ma anche, di recente, bovini).
Attraverso il progetto è stata inoltre richiamata la fondamentale necessità di un’educazione e un’informazione dell’opinione pubblica con iniziative volte alla conoscenza ravvicinata delle condizioni di vita dei pastori e degli aspetti concretamente fruibili (paesaggio, prodotti, tradizioni vive), anche per controbilanciare il favore dell’idea della presenza del predatore. Le variazioni gestionali alle quali da oltre un decennio sono obbligati gli allevatori non possono che testimoniare le difficoltà di questi operatori nell’attuare una conveniente utilizzazione con i domestici delle superfici pastorali d’altitudine, unico modo per garantire nel tempo la conservazione del paesaggio alpino, tramandato da generazioni di alpigiani. Tra le varie attività seguite dal progetto, i rilievi effettuati sulla vegetazione di una decina di alpeggi hanno consentito di verificare come i sistemi di gestione delle superfici pastorali adottati a seguito del ritorno del lupo risultino ancora tecniche poco favorevoli al mantenimento della qualità della risorsa. La conseguenza è l’abbandono delle superfici più difficilmente raggiungibili, ma di indiscutibile valore ecologico, con l’effetto di determinare l’incremento della vegetazione arbustiva e pre-forestale e la perdita delle testimonianze dell’insediamento umano. Proprio al degrado di ordine paesaggistico ed ecologico al quale le nostre Alpi sono soggette per diverse ragioni da oltre cinquant’anni, con dimezzamento delle superfici pastorali e perdite di valore pastorale della vegetazione restante, si legano le conseguenze di ordine produttivo. Il risultato è la compromissione delle opportunità che la biodiversità vegetale di un pascolo ben utilizzato può offrire per ricchezza e diversità attraverso i prodotti dell’allevamento. Nonostante le difficoltà che sta incontrando il settore, queste indagini hanno anche dimostrato l’interesse che l’attività pastorale sta riscuotendo da parte di numerosi giovani, spinti da sincere motivazioni; tali difficoltà rappresentano, peraltro,  un vero e proprio ostacolo alla formazione di imprese produttive “di ritorno” che oggi potrebbero essere convenientemente orientate alla riscoperta delle tradizionali e peculiari produzioni casearie d’alpeggio. Una difesa adeguata dei sistemi pastorali, anche opponendosi attraverso misure che contrastino la preoccupante intensità delle predazioni da lupo, consentirà di proteggere l’elevata biodiversità animale e vegetale che li caratterizza. Questo anche in pieno accordo con le indicazioni programmatiche della prossima politica agricola comunitaria che non intende solo riconoscere il valore economico “convenzionale” del sistema pastorale, ma piuttosto favorire le sue numerose esternalità e i servizi a favore dell’ambiente (ad es. includendo gli effetti di mitigazione nei confronti del cambiamento climatico per le minori emissioni di CO2 delle superfici pastorali). Tutto ciò potrà essere realizzato solo attraverso un corretto uso di questi preziosi ambienti delle nostre Alpi, “utilizzati” dagli animali, ma anche “custoditi” dai nostri pastori.
Luca Battaglini

«Dovesse arrivare il lupo in queste vallate, la maggior parte dei pastori sparirebbe. Siamo in pochi, siamo vecchi. Lo vedi come sono queste montagne, non è cambiato niente da cento anni. Il mondo qui non è andato avanti, le baite sono quelle di allora, per una strada che hanno fatto in fondovalle ci sono state solo polemiche. L’unica cosa che è cambiata sono le montagne, così sta andando tutto all’abbandono. Se arriva ancora il lupo sarà la fine» (intervista a un pastore della Valchiusella).

Info: http://progetto-propast.blogspot.it/