Farley Mowat, Mai gridare al lupo, Orme, Roma 2012. 187 pagine, 15 euro
A cinque anni, il piccolo Farley Mowat riempie il gabinetto della nonna di enormi pesci gatto (dove altro metterli dopo averli tratti in salvo da una pozza in secca?): vittima della vescica debole e della passione naturalistica del nipote, l’aristocratica antenata quasi stramazza per lo spavento nel cuore della notte. Ma ormai il giovane Farley ha trovato la sua strada: studiare gli animali. Alla venerabile età di tredici anni, fonda un bollettino di informazioni naturalistiche e pubblica una colonna a tema biologico su un settimanale locale: tutto ciò che guadagna lo investe in cibo per anatre e oche che, avendo perso il treno della migrazione, non sarebbero sopravvissute al gelido inverno canadese. Non contento, l’intraprendente Farley fonda con alcuni amici il Castoro Club dei Naturalisti Dilettanti, con tanto di museo in uno scantinato, che dovette essere spostato dopo un’invasione di lepidotteri e scarafaggi famelici. Insomma: un tipo simpatico, questo Mowat, che oggi, all’età di 81 anni, è un etologo di fama internazionale.
Orme Editori ripropone la sua esperienza nel cuore della tundra canadese, dove il governo di Ottawa lo aveva spedito nel 1948 allo scopo di raccogliere informazioni sulla vita e sulle abitudini dei lupi che, secondo le autorità, stavano decimando la popolazione dei caribù e terrorizzando quella degli umani. A dirla tutta, Mowat avrebbe dovuto portare le prove di un eccidio dato per scontato in seguito alle disinteressate lamentele indirizzate al Ministero da vari club di caccia e pesca, nonché da influenti esponenti della lobby dei produttori di munizioni…
Partito a bordo di un biplano scalcinato con un armamentario improbabile verso una destinazione vaga, il biologo ventisettenne inizia a osservare i lupi. Tuttavia, solo dopo varie disavventure (per il vero piuttosto esilaranti), comincerà a vederli davvero. Attraverso i propri occhi e senza il filtro di dicerie strampalate, fobie ingiustificate o, peggio, colpevoli menzogne.
Chi sono gli assassini dei caribù? Chi li copre, e perché? Il resoconto di Mowat può essere letto come un giallo, dove un giovane ispettore è incaricato di procurarsi le prove scontate che senz’altro inchioderanno il maggior indiziato, il lupo. E se testimoni prima non ascoltati, gli Inuit, raccontassero un’altra versione dei fatti? E se le indagini dovessero rivelare che la pista iniziale era sbagliata? Anzi, che è in atto un vero e proprio depistaggio con la complicità della polizia?
Qualcuno ha messo in dubbio la veridicità del racconto di Mowat: si tratta senz’altro di un’avventura umana e scientifica fuori dall’ordinario, ma non per questo inverosimile. Autoironico e abile nello sviluppare spunti romanzeschi di irresistibile comicità (tre o quattro scene strapperebbero un sorriso anche al lettore più paludato), Mowat ci porta a spasso nelle Barren Lands del Keewatin centrale (oggi North Ontario) alla scoperta dei suoi abitanti umani e animali. Per inciso: nel 1952 Mowat pubblica Il popolo dei caribù, un libro contestatissimo che, oltre a conferire notorietà letteraria all’autore, fu largamente responsabile del cambio di orientamento del governo canadese rispetto agli Inuit, di cui fino a poco prima ignorava o addirittura negava l’esistenza.
Un po’ Konrad Lorenz, un po’ Malinowski, un po’ Fantozzi, Mowat è animato da un’autentica passione per la scienza, la natura e la vita all’aria aperta. Ardito sperimentatore (nel tentativo di validare un’ipotesi sull’alimentazione dei lupi, si autosottopone a una dieta ferrea a base di roditori) e inviato scomodo del governo canadese, alla fine avrà la soddisfazione di veder sistematicamente insabbiati dai committenti i risultati delle sue ricerche. In compenso, Never Cry Wolf (1963) ha costituito per il pubblico di lingua inglese il primo tentativo scientificamente fondato di scagionare il lupo dalle false accuse che ancora oggi molti gli rivolgono per paura, ignoranza, interesse.
Irene Borgna