Che cosa sta cambiando nelle dinamiche del turismo alpino? Sta cambiando qualcosa? Nel 2002 scrivevo su “La nuova vita delle Alpi”:
«Negli ultimi anni si è andata finalmente diffondendo l’opinione che il turismo non sia la panacea per ogni male delle Alpi. Soprattutto un turismo scarsamente o per nulla inserito nel tessuto culturale locale, un turismo invasivo, onnivoro, monocorde, predatore dell’ambiente.
Anche i grandi comprensori turistici, che rappresentano l’industria più largamente dotata di esperienza e di mezzi, manifestano segnali di crisi e commissionano complesse indagini socio-economiche per riposizionare il proprio “prodotto” e integrare lo sci di pista e le altre attività tradizionali con offerte alternative».
A questo proposito citavo un’inchiesta Doxa-Ciset del 2001 su “Prospettive, sviluppo e promozione delle Dolomiti del Veneto”:
«Il prodotto turistico alpino attraversa oggi una fase di maturità, caratterizzata da una minore capacità di attrazione del prodotto “tradizionale”, sia estivo che invernale, e da una maggiore concorrenza tra località montane e tra modi differenti di utilizzo della risorsa “montagna”. Il trend positivo che ha caratterizzato l’evoluzione della domanda negli ultimi decenni mostra segni di evidente rallentamento. La crisi della montagna, di fatto, non esiste: esiste piuttosto la crisi di un mercato alpino “vecchio e obsoleto”, incapace di dare risposte alle esigenze del mercato…».
Direi che l’analisi è ancora fin troppo attuale – salvo eccezioni, s’intende – e i cambiamenti climatici in atto stanno portando rapidamente a galla quella crisi del mercato alpino “vecchio e obsoleto” diagnosticata oltre dieci anni fa non dai filosofi del turismo ecologico, ma dagli analisti delle dinamiche economiche. Dove il turismo non ha trovato le idee e la volontà per integrarsi con altre fonti di reddito e sviluppo come l’agricoltura, la forestazione, l’artigianato, la ricerca, le energie rinnovabili, eccetera, ogni investimento sembra appeso al filo precario dei contributi pubblici, che nascono e si consumano come neve al sole. Infatti il turismo è un’industria come le altre, fragile come le contingenze economiche, a meno che non riesca a costruire solidi legami con la natura e la cultura del territorio. Proprio sulle Dolomiti del Bellunese la crisi dell’industria degli occhiali, per esempio, ha rimesso in moto un processo di spopolamento che l’industria turistica non riesce a contrastare, nonostante le straordinarie bellezze naturali che il Cadore offre al visitatore, per nulla inferiori alle vicine Dolomiti trentine o sudtirolesi.
Uno sguardo panoramico sulle infinite realtà del turismo alpino rivela che le situazioni variano di valle in valle e solitamente, all’interno delle stesse, si connotano con una tendenza alla residenzialità urbana nelle basse valli, con l’abbandono o la criticità dell’agricoltura tradizionale nelle medie valli e con la concentrazione dell’offerta turistica nelle alte valli, le più vicine ai ghiacciai e alle cime famose. Esistono valli addirittura sovra dotate di infrastrutture turistiche, di solito legate al mercato dello sci, e altre valli storicamente povere di vocazione turistica (o dimentiche della vocazione perduta), dunque carenti di strutture ricettive, capacità di accoglienza, proposte di ospitalità. In mezzo ci sono per fortuna situazioni virtuose in cui il turismo è di casa ma non ha stravolto la cultura e il paesaggio dei luoghi, sviluppando al contrario processi di interazione tra abitanti e forestieri.
Le Alpi piemontesi oscillano pericolosamente tra due modelli estremi: da un lato la monocultura dello sci, che in tempi di magra di euro e neve avrà sempre più bisogno di iniezioni di capitale pubblico (fino a che punto?), dall’altro la montagna del turismo raccogliticcio e approssimato, fatto di poveri progetti e scarsa professionalità. A operazione olimpica largamente conclusa, il Piemonte resta la terra delle colline dei laghi e dei vini, con una Torino finalmente riscoperta, l’offerta sciistica concentrata in prevalenza sulla Via Lattea e, a sorpresa, mete “esotiche” come il Parco della Val Grande sul Lago Maggiore per gli amanti dell’insolito, soprattutto stranieri, oppure i Sacri Monti per il turismo religioso. Alla maggior parte dei turisti continuano a sfuggire quei quattrocento chilometri di Alpi che danno il nome alla regione e circondano la grande città, unica metropoli al mondo con un arco di meraviglie che comprende i triangoli del Monviso e del Rocciamelone, i quattromila metri del Gran Paradiso e le pareti himalayane del Monte Rosa, includendo un’infinità di valli, paesaggi, storie, memorie e occasioni. Se i piemontesi non vedono le Alpi, come possono vederle i forestieri?
La più recente fotografia della situazione turistica nelle valli, a cura dell’Uncem regionale, sottolinea tra i punti di forza l’alta qualità naturalistica delle montagne piemontesi e la numerosa presenza di «borgate alpine che hanno conservato l’autenticità dei territori», includendo tra i punti di debolezza la forte stagionalità della domanda, la disuguaglianza delle risorse e «la scarsa cultura in termini di innovazione e capacità manageriale». Aggiungerei la scarsa propensione all’accoglienza, che in definitiva è quella che orienta le scelte dei visitatori: se mi sento coccolato ritorno volentieri in un posto, se mi trattano da estraneo vado da un’altra parte.
I cambiamenti climatici e la crisi economica non fanno che accentuare le contraddizioni di un patrimonio negletto e straordinario. Mentre le stazioni invernali battagliano con le temperature e l’incertezza della neve, la crescente domanda di montagna estiva si scontra con l’impreparazione delle valli ad attrarre e intrattenere il “nuovo turista”, che non è più disposto a salire e scendere come sullo yo-yo ma chiede di essere ospitato, orientato e accompagnato alla scoperta di un mondo non suo. L’ospitalità turistica non può più limitarsi alla tavola e a un letto, per invitanti che siano. Deve evolvere verso la confidenza e il rapporto di scambio.
Il banco di prova del turismo alpino di domani sarà proprio l’estate (almeno quattro mesi da giugno a settembre), quando la neve non copre pietosamente le ferite ambientali e non c’è luna park o palcoscenico che possa distrarre gli occhi del visitatore: la montagna si mostra per quello che è, incerottata o bellissima.
Enrico Camanni