L’ultima volta in cui i media hanno considerato in massa l’esistenza del nucleare alpino era il 12 settembre 2011, in seguito a un incidente alla centrale di Marcoule (Francia), nei pressi di Avignone. L’incidente ha riguardato un’esplosione che ha provocato la morte di una persona e il ferimento di altre quattro. Le informazioni riferite all’impatto ambientale non sono state diffuse in modo omogeneo dalla stampa, ad ogni modo l’incidente non ha avuto conseguenze rilevanti a livello transnazionale. Ma cosa succederebbe nelle Alpi nell’ipotesi di uno scenario pessimistico, ovvero se accadesse in una delle centrali nucleari alpine ciò che è successo a Chernobyl o a Fukushima? Per calcolare, a livello mondiale, la quantità di popolazione direttamente interessata dal rischio nucleare, Nature News e l’Università della Columbia hanno creato una mappa interattiva in Google Earth e un modello di calcolo basato sul rischio associato a ciascun reattore nucleare e la popolazione residente entro un certo raggio di distanza dall’impianto.
Decan Butler, giornalista della rivista Nature, ha dichiarato ufficialmente che, tra i molti parametri da prendere in considerazione per il nucleare, il rischio maggiore deriva dalle zone più densamente popolate. Si pensi al riguardo che la regione intorno alla centrale di Fukushima, dove la popolazione ha dovuto essere evacuata in un raggio di 30 chilometri, non è nemmeno troppo popolata, contando circa 172.000 abitanti. Bisogna però considerare il fatto che a 150 km la radioattività calcolata durante l’incidente corrispondeva a quella dei suoli compresi nei primi 50 km di ampiezza. Applicando questo calcolo sulle centrali nucleari panalpine emerge un dato piuttosto sconcertante: la popolazione a rischio di incidente nucleare rilevante corrisponde a più di 50 milioni di persone, comprendente l’intera popolazione interna allo spazio alpino (di cui, ricordiamo, 8 milioni di abitanti risiedono in città alpine interne) oltre a quella di alcune regioni vicine come la Repubblica Ceca e la Repubblica Slovacca, che offrono anch’esse un contributo di due centrali cadauna. Le dieci centrali gravitanti a meno di 150 km dalle Alpi sono Phenix-Marcoule, Cruas-Meisse, Saint-Alban, Bugey, Fessenheim (Francia), Goesgen, Beznau, Leibstadt (Svizzera), Grundemmingen, Isar (Germania), Krsko (Slovenia), Bohunice, Mochovce (Repubblica Slovacca), Temelin e Dukovany (Repubblica Ceca). Vi è tra di loro una certa diversità, sia per anzianità che per tecnologia impiegata: la centrale più vecchia è la svizzera Beznau, risalente al 1969, mentre la più recente è quella di St. Alban in Francia, risalente al 1985. Anche se Guenther Oettinger, commissario europeo all’energia, nel dopo Fukushima ha invitato i Paesi europei che adottano il nucleare a vegliare sulle centrali, verificando gli standard di sicurezza degli impianti più vecchi, l’anno di costruzione non incide sempre direttamente sulla rischiosità dell’esercizio delle centrali. Indagando ad esempio, per quanto attiene alla regione alpina, sulla stampa locale e i documenti, la centrale svizzera di Beznau, in 42 anni di esercizio, non ha mai registrato eventi di livello INES 2 considerati come “guasti” (la scala INES per gli eventi nucleari è suddivisa in 7 classi, da quella denominata “anomalia”, più frequente e priva di conseguenze, a “incidente catastrofico” come a Chernobyl), mentre questi casi in Francia sono ben più frequenti: tra gli ultimi, oltre l’incidente di Marcoule già segnalato in apertura, è da ricordare uno sversamenteo accidentale di materiale termonucleare nei corsi d’acqua della centrale di Tricastin risalente all’8 luglio 2008, di cui il giornale Le Monde rivelò un’emissione pari a 100 volte quella ammissibile in un intero anno.
La nota positiva è legata al fatto che, in seguito all’incidente giapponese di Fukushima, molti Stati “alpini” ad oggi hanno programmato o anticipato un piano di dismissione delle loro centrali. La Germania, come ampiamente divulgato dai media, ha deciso di abbandonare l’energia nucleare entro il 2022, annullando concessioni come quelle di Grundemmingen programmate fino al 2030. Analogamente ha fatto la Svizzera. In Italia il risultato del referendum del 12-13 giugno 2011 è noto. Più controverse le posizioni di altri paesi come la Francia, dove l’energia atomica è una priorità nazionale, anche se gran parte della popolazione pare, da fonti non ufficiali, avversa al nucleare, e Repubblica Ceca e Slovacca (Stati non Alpini ma di interferenza alpina), che addirittura hanno definito un piano di potenziamento delle loro centrali.
Alcune centrali come Marcoule in Francia dovrebbero essere avviate a dismissione da qui a pochi anni, ma per molte altre la situazione è differente. Rimane poi la questione di come considerare e affrontare la transizione energetica. Il Governo di Berna ha ad esempio dichiarato che probabilmente si dovranno attivare investimenti per incrementare la produzione idroelettrica e anche per costruire impianti di pompaggio. Secondo alcuni esperti potrebbero essere utilizzati a questo scopo persino i nuovi laghi glaciali che si formeranno in seguito al riscaldamento climatico. Ma, soprattutto considerando la difficile applicazione dell’idroelettrico in molte zone alpine, le soluzioni potranno essere versatili, come quelle approfondite dagli altri articoli qui sopra.
Alberto Di Gioia