L’antropologo Gian Paolo Gri, in occasione del convegno promosso da Rete Montagna nel 2006 dal titolo “Le Alpi che cambiano: nuovi abitanti, nuove culture, nuovi paesaggi”, presentò la seguente relazione: “Il peso dei numeri e degli anni: intorno al rapporto fra demografia e mutamento culturale”. Egli notava come nei due ultimi decenni del XX secolo l’immagine della società alpina fosse uscita profondamente cambiata da una stagione di studi – storici, geografici, antropologici – «segnata dal peso che i numeri hanno cominciato ad avere nelle analisi e nelle interpretazioni delle scienze umane». Partendo in effetti da un esercizio in larga misura numerico quale la ricostruzione della demografia delle Alpi nel lungo periodo, questi studi avevano fatto emergere una serie di “paradossi” – non solo demografici, come la relazione inversa tra altitudine e livelli della mortalità infantile, ma anche socio-culturali, come ad esempio la tendenza dell’alfabetizzazione a crescere con l’altitudine – che hanno imposto un ripensamento dei rapporti tra pianura e montagna soprattutto nel passato.

Nuovi e diversi paradossi alpini stanno però affiorando in questi anni, ancora una volta segnalati da mutamenti nei numeri della popolazione. Il mutamento più sorprendente – osservabile nelle Alpi francesi già nell’ultimo scorcio del XX secolo, ma riscontrato nell’ultimo decennio anche in varie parti delle Alpi italiane – è dato da una crescita degli abitanti in molti comuni dopo oltre un secolo di ininterrotto declino. Tale crescita, riconducibile primariamente all’immigrazione di “nuovi montanari”, si traduce in un mutamento di composizione delle popolazioni alpine che a sua volta solleva questioni di grande interesse: in primo luogo, infatti, impone di domandarsi con più forza e precisione che in passato – come già aveva fatto qualche anno fa Enrico Camanni – di chi siano le montagne e il loro patrimonio culturale, chi abbia il diritto e/o il dovere di trasmetterlo, e con quali modalità. Ci si deve chiedere innanzitutto se – o, meglio, in che senso – un mutamento demografico quale indubbiamente deve ritenersi l’inversione di tendenza che si registra oggi nella demografia alpina si traduca in un mutamento culturale. O, in altri termini, se questa inversione di tendenza implichi necessariamente una discontinuità culturale – soprattutto in un’area come quella alpina dove le comunità locali sono, in molti contesti, quasi condannate a dimostrare una continuità culturale con il passato. È affrontando domande di questo genere che ci si imbatte in nuovi paradossi: sembra infatti ragionevole credere – anche se questo andrà confermato da più puntuali indagini – che in non pochi casi una continuità culturale possa essere resa possibile solo da una discontinuità demografica (nuovi abitanti); e non si può escludere che, paradossalmente, settori forse ampi della popolazione “locale” (rappresentanti della continuità genealogica) possano ricercare innovazione e creatività (discontinuità) anziché una perpetuazione di tradizioni.
Pier Paolo Viazzo