Il Parco Nazionale della Val Grande, istituito nel 1992, tutela l’area selvaggia più estesa d’Italia: 15.000 ettari tra l’Ossola, il Lago Maggiore e la Val Vigezzo, caratterizzati da un tasso di wilderness tra i più elevati d’Europa. Il direttore del parco, Tullio Bagnati, spiega a Dislivelli gli sforzi del parco per tutelare un territorio così delicato.
Quali sono le ricadute della crisi economica e politica nei confronti della tutela dell’ambiente?
I segnali sono ambivalenti, e vanno comunque riferiti a una specificità del Parco Nazionale Val Grande, ovvero l’essere un’area tutelata pressoché priva di centri abitati ed attività economiche caratterizzata da un altissimo livello di wilderness.
Da una parte le dinamiche più strutturali della crisi rafforzano la cesura, già esistente per ragioni storiche e socio economiche, tra le aree marginali delle vallate del parco e ambiti di più consolidata presenza industriale e turistica nelle aree limitrofe, che già hanno assorbito fenomeni di inurbamento dalle stesse aree marginali e che vivono più direttamente gli effetti della crisi.
Inoltre, la congiuntura economica si riflette, come ben sappiamo, anche sulle disponibilità economico-finanziarie del Paese. Se sul piano politico nazionale non c’è una forte consapevolezza del ruolo e delle opportunità di sviluppo proprie dei parchi, della loro possibilità di essere volano per particolari settori produttivi (agricoltura, allevamento, artigianato, ecc.) ne consegue uno scarso investimento di risorse, che in effetti negli ultimi anni si vanno riducendo sempre più.
Allo stesso tempo però cresce la sensibilità e l’avvedutezza di alcuni operatori e singole persone, che vedono nell’ambiente e in alcune nicchie di mercato un’opportunità di investimento: sui prodotti locali, sulla ricettività extralberghiera, sulla promozione turistica. Si tratta di numeri non altissimi, ma che segnalano all’Ente la strada da percorrere per politiche più mirate.
In che modo il vostro parco si relaziona con il turismo?
Il turismo è un tema di carattere strategico: l’essere geograficamente compreso tra il bacino turistico del Lago Maggiore (oltre 2 milioni di presenze nel 2010) e quello della Valle Vigezzo e delle vallate ossolane delinea le potenzialità del parco verso segmenti di mercato aggiuntivi a quelli che sono i flussi più tradizionali, di tipo escursionistico e naturalistico, diretti verso il nostro parco e verso un modello di offerta di servizi (ricettività, ristorazione, ecc.) complementare a quella lacustre.
Quindi ci può essere equilibrio tra salvaguardia e sviluppo?
Il nostro orizzonte operativo riguarda prima di tutto il rapporto tra wilderness e biodiversità. Paradossalmente il processo di naturalizzazione “di ritorno” porta a una perdita di biodiversità e a una semplificazione dei paesaggi del parco: questo perché l’ambiente alpino è in primo luogo un paesaggio bio-culturale e, quindi, l’abbandono e la scomparsa di attività antropiche tradizionali hanno effetti diretti su habitat, flora e fauna. Entro questo quadro il rilancio delle passate attività può svolgere un ruolo importante proprio per l’equilibrio tra salvaguardia e sviluppo.
Che rapporto c’è tra il parco e la popolazione?
Direi che complessivamente è buono, ma non dobbiamo dimenticare che l’istituzione del parco è stata voluta in primo luogo dagli amministratori dei comuni interessati e questo ha comportato uno start-up meno conflittuale rispetto quello vissuto in altre parti d’Italia. Anche se bisogna aggiungere che l’esclusione dai confini dell’area protetta della quasi totalità dei centri abitati diminuisce, nella gestione corrente, alcune ragioni di contrapposizione. Allo stesso tempo però, l’insediamento delle attività economiche fuori dai confini crea minori occasioni di coinvolgimento e condivisione su progetti di innovazione o di sostegno da parte del parco.
Quali strategie adottate per sopravvivere senza fondi regionali o statali?
In questi anni da una parte si è cercato di sensibilizzare le amministrazioni locali alla logica della rete e dell’ottimizzazione dell’uso delle risorse, dall’altra è diventato cruciale il fundraising. Diciamo che negli ultimi tre anni la sensibile riduzione del contributo ordinario si è riusciti a controbilanciarla con acquisizioni di risorse fresche attraverso progetti Interreg e bandi delle Fondazioni bancarie che operano sul territorio.
Sembra che i progetti europei siano diventati indispensabili per le aree protette.
I progetti Interreg in questi anni sono stati occasione non solo per reperire risorse, ma anche per attivare progetti che hanno visto il coinvolgimento delle amministrazioni locali, che non hanno più operato a ranghi sparsi. È fondamentale anche il rapporto con gli stati vicini e con la pluralità di soggetti partecipanti a progetti europei. Per il Parco Nazionale Val Grande questa relazione ha significato soprattutto studiare e valutare programmaticamente l’ambito di un parco transfrontaliero con l’istituendo secondo parco nazionale svizzero del Locarnese e della Valle Maggia, ma anche costruire relazioni di confronto sulle buone pratiche.
Qual’è la cosa migliore che ha fatto il vostro parco da quando è stato istituito?
Rappresentare – con il proprio nome, con i progetti, con il lavoro quotidiano del personale – una identità riconoscibile per territori e comunità che altrimenti le dinamiche strutturali avrebbero posto al di fuori delle possibili azioni territoriali, ma anche la collocazione dei valori intrinseci al parco dentro un contesto nazionale e internazionale.
Giacomo Pettenati